Povero Tommaso. Ti ricordi, Maria? Quando è venuto a dirti che se ne andava anche lui, verso l'India misteriosa, per annunciare ad altri la gioia di una beatitudine che lui non era stato capace di sperimentare, non sapeva staccarsi dal tuo collo, e ti ha chiesto mille volte perdono per quell'affronto fatto a Gesù.
Era fatto così Tommaso. No. Non era scettico. E tanto meno incredulo. Voleva solo vederci chiaro. Tanto che gli occhi non gli bastavano. Pretendeva il conforto delle mani: «...se non metto la mano nel costato»!
Povero Tommaso. Ti ricordi, Maria? Quando è venuto a dirti che se ne andava anche lui, verso l’India misteriosa, per annunciare ad altri la gioia di una beatitudine che lui non era stato capace di sperimentare, non sapeva staccarsi dal tuo collo, e ti ha chiesto mille volte perdono per quell’affronto fatto a Gesù.
Fu allora che prendesti a consolarlo dicendogli che anche tu, in fondo, volevi vederci chiaro. Difatti la prima cosa che il Vangelo avrebbe conservato dite non era l’obbedienza del fiat, ma una insopprimibile voglia di trasparenza: «Come avverrà questo? Spiegati, angelo, non nascondermi nulla, come avverrà?».
Sorretto dalle tue parole e alleggerito dalle tue carezze di Madre, Tommaso se ne è andato così. Di lui, del «gemello», del più discolo tra i dodici, non hai avuto più notizie.
Del gemello. Ma di chi era gemello Tommaso? il Vangelo non lo dice. E forse si capisce perché. Perché gli siamo gemelli tutti.
Vedi, Maria. Io vengo da un secolo in cui è difficile fidarsi anche della propria ombra. Per credere, non ci basta più l’ascolto, così come è avvenuto per te, che ti è stato sufficiente udire le parole dell’angelo per abbandonarti completamente a Dio. E non ci basta neppure vedere, così come è bastato ai pastori. Ti ricordi quella notte di sogno? Si dissero l’un l’altro «Andiamo fino a Betlem e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». Abbandonarono i fuochi del bivacco, si abbassarono sulle orecchie avvampate dalla brace i copricapi di lana, e vennero senza indugio a schiere davanti alla mangiatoia. Poi, dopo aver visto la trasparenza di Dio, che tu avevi avuto cura di avvolgere in fasce perché non li accecasse, se ne tornarono alle loro greggi glorificando Jahvé «per tutto quello che avevano udito e visto».
Ma che fai, piangi?
Lo so che la rievocazione di quella notte ti commuove.
Mi viene il dubbio, però, che quelle non siano lacrime di tenerezza, e che tu le stia versando per tutti coloro ai quali, per credere, non basterà più né ascoltare, né vedere: vorranno toccare. Come Tommaso, il nostro gemello. Anzi, più di Tommaso. Perché lui volle toccare, ma poi di fatto non toccò. Seppe arrestarsi alle soglie del suo folle realismo. Lasciò che i certificati di garanzia da lui pretesi gli si sciogliessero tra le dita come sigilli di ceralacca sotto la fiamma di una candela. E cadde in ginocchio, alle frontiere luminose di quegli spazi di carne che non ebbe più il coraggio di manipolare.
Per noi, invece, è diverso. Il dubbio è divenuto cultura. L’incredulità, virtù. La diffidenza, sistema. A tal punto, che introduciamo nella nostra vita solo ciò che passa attraverso il delirio dei nostri palpeggiamenti.
Sì, Maria. Forse non ne abbiamo colpa. Ma noi oggi stiamo vivendo proprio questa tragedia. Con tristezza. Dio sa quanto vorremmo pure noi affidarci alla gente, consegnarci alle cose, abbandonarci al filo degli eventi. Così come facevi tu quando, a vent’anni, passeggiando per le campagne di Nazareth nelle sere di maggio, ti affidavi al braccio forte di Giuseppe. O come fanno i bambini che, dopo lunghe rincorse sui prati, si abbandonano all’erba della primavera, O come i gabbiani che si consegnano all’ala del vento.
Dio sa come vorremmo fuggire dalle trincee solitarie entro cui abbiamo organizzato difese a oltranza. E dilatare questa nostra povera vita negli spazi verginali di comunioni senza tradimenti. E allacciare amori senza sospetti, rapporti senza pregiudizi, riconciliazioni senza ripudi. E stringere alleanze imperiture che profumino di erba di campo, che abbiano il respiro, lo stupore dei risvegli, il fascino della notte. E consegnarci a intimità così tenaci da sentirci senza peso, quasi riassorbiti in grembi materni, e cullati nelle reti del mistero.
Dio sa come vorremmo tentare sortite liberatorie dai fortilizi sotterranei nei quali ci siamo nascosti assediati dalle nostre paure. Ma appena apriamo la botola, una tempesta di delusioni ci ricaccia dentro, condannandoci a una interminabile crisi di fiducia.
E dire che ci brucia dentro tanta voglia di trasparenza.
don Tonino Bell
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