Fu terribile, ma salvifico: volevo creare con le mani ma...
del 14 settembre 2015
La memoria è il modo in cui il tempo degli orologi, sempre in movimento, si incontra con l’eternità fatta di istanti talmente densi di senso da essere fermi. Per questo il mio primo disastroso giorno di scuola di prima elementare è nella mia memoria un motore immobile.
Avevo cinque anni, ero all’asilo, l’unico periodo scolastico in cui imparare coincide con creare, che coincide con crescere. Creavo soprattutto con il pongo: astronavi per scontri apocalittici con i miei amici. Sedevamo attorno a banchi disposti a quadrato, ci guardavamo in faccia e le nostre mani agivano su uno spazio pieno di possibilità. Nessuno di noi sospettava che la scuola «dei grandi» avesse banchi a trincea, controllati dalla torretta-cattedra da occhi-mitragliatrice.
Ad un tratto la maestra Gabriella mi chiamò: «Oggi cambi classe» (sono un «primino»). Mi fidavo di lei, le tesi la mano e mi portò in prima elementare.
Ero convinto, logica ferrea di bambino, che la scuola fosse un crescendo di pongo: ce ne sarebbe stato sempre di più, di classe in classe, sino al trionfo di una laurea in pongo! Quando entrai invece c’erano dei banchi disposti a file e non ci si guardava in faccia. Tutti fissavano la lavagna e una maestra vestita di nero: spiegava qualcosa di strano e freddo. Gesso bianco e cifre astratte: le temutissime tabelline, porta infernale attraverso la quale abbandonavo il mondo incantato della creazione, per entrare in quello del far di conto. Mi sono seduto in fondo, solo col mio banco. Del pongo nessuna traccia.
Dovevo imparare e stare lì seduto. Adesso imparare voleva dire soffrire: mi aspettavano 13 anni dietro ad un banco di pochi centimetri, a imparare, senza mani e senza facce. Ma i bambini sanno presto trasformare la mancanza in risorsa, così cominciai a guardarmi intorno. Sulle pareti c’erano dei cartelloni colorati con grandi figure associate a segni eleganti. «Gn» con uno Gnomo dal barbone bianco, «F» con una farfalla gialla a puntini neri, «C» con un bel coltello affilato, la «C» poi era anche sul cartellone vicino, con una coppia di superbe ciliegie. Non sapevo ancora che i suoni potessero essere affilati come un coltello e dolci come ciliegie. Cominciai a fissare i disegni, perché le tabelline mi terrorizzavano (ancora oggi se qualcuno mi chiede 7 per 8 a bruciapelo ho un sussulto). Mi estraniai: per questo poi cominciai a collezionare uscite «fuori porta»: «chiacchierone e distratto!». Nessuno riconobbe un talento mal indirizzato...
Eppure quel giorno i cartelloni dell’alfabeto mi salvarono, perché potevo creare anche senza pongo e senza mani, ma con la testa, il cuore e gli occhi, senza che nessuno se ne accorgesse, immaginando i rapporti invisibili tra quei personaggi fatti di lettere e colori: che cosa facevano quando lasciavamo la classe, soprattutto la notte? Nascevano, nella mia testa in fuga, trame tessute da quelle relazioni invisibili, a cui io davo esistenza. Fu allora che nacque una delle mie prime storie: cosa fa lo Gnomo alla Farfalla con il Coltello? Un thriller di cui non ricordo lo sviluppo, purtroppo. Se lo ricordassi guarirei da molte delle mie tare mentali...
Quelle lettere mi cambiarono la vita. Erano i segni «calligraficamente» perfetti di un mondo da scoprire in ciò che ha di invisibile e possibile. C’era molto più sul muro bianco tra un cartellone e l’altro che in tutte le formule da imparare a memoria, come accade nella vita. Quei personaggi si muovevano nel mio teatro interiore per svelarmi grandi segreti. Con le parole potevo dare vita a quelle relazioni invisibili, riempire di parole quella parete bianca e incantare i miei amici.
Così divenni un cantastorie dell’invisibile e del possibile strappato allo spazio bianco, prima del muro poi della pagina. Continuo a farlo oggi, tutte le volte che le pareti bianche della vita celano misteri, paure, segreti, domande e cerco risposte nei personaggi e nelle parole che si agitano dentro e attorno a me. Tutto è cominciato così, nel mio primo disastroso giorno di scuola. Non me ne vogliano i matematici, ma quello è il lutto che cerco di elaborare da una vita.
Alessandro D'Avenia
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