Un anno senza Kobe, la sua lezione in un libro

Il 26 gennaio 2020 la scomparsa del campione e di sua figlia in un tragico incidente. Un fuoriclasse consapevole della forza dello sport e della fede, come dimostra una saga letteraria da lui lanciata

Un anno senza Kobe, la sua lezione in un libro


 

di Antonio Giuliano domenica, tratto da avvenire.it 

 

Il 26 gennaio 2020 la scomparsa del campione e di sua figlia in un tragico incidente. Un fuoriclasse consapevole della forza dello sport e della fede, come dimostra una saga letteraria da lui lanciata

 

«Essere un padre è la cosa di cui sono più orgoglioso in questo mondo; è il mio più grande risultato. Ho imparato davvero tanto, ma forse la cosa più profonda è stata l’amore fiero e incondizionato che hai per i tuoi figli quando diventi un genitore. Sono felice di aver vissuto questa esperienza quattro volte e non c’è niente di più potente in questo mondo». Ha vinto tutto quello che di più grande può sognare un cestista, è diventata un’icona del basket e la sua popolarità è andata ben oltre lo sport. Ma ciò che rendeva fiero Kobe Bryant era innanzitutto esser diventato papà. È già passato un anno dalla sua scomparsa a soli 41 anni, insieme con la figlia tredicenne Gigi, in quel tragico incidente del 26 gennaio 2020 che ha coinvolto anche altre sette persone. L’incredulità è ancora tanta. «Se n’è andato decisamente troppo presto ha detto in questi giorni un suo ex compagno di squadra, il grande Shaquille O’Neal - Continuo a essere devastato dalla perdita del mio amico, del mio fratellino, Kobe Bryant e della mia bellissima nipote Gigi. Il 26 gennaio siamo tutti cambiati per sempre». Ma è più vivo che mai il segno che ha lasciato nel cuore della gente. Una lezione che brilla ora anche nei suoi scritti. 
 

Già perché il campione dei Los Angeles Lakers ha messo la sua firma anche su una collana di libri in cui la pallacanestro sconfina nel fantasy. È arrivato anche in Italia, Coach Wizenard. Magico basket camp (Mondadori Electa Junior, pagine 488, euro 24,90) il primo libro della serie ideata e voluta dallo stesso Kobe scritta insieme con l’autore canadese Wesley King. Una saga a puntate in cui il protagonista è Rolabi Wizenard, il nuovo allenatore di una squadra di basket del campionato giovanile americano. I Badgers sono ultimi in classifica, i suoi giocatori vivono nel quartiere più disagiato della città, nessuno crede in loro. Sarà Wizenard a condurli al riscatto, con una strana e magica metodologia, che li motiverà a riflettere sulla vita oltre che sul basket. Un approccio controcorrente per costruire un gruppo unito e vincente, in campo e fuori. Quanto il Mamba tenesse a questo progetto editoriale non è un mistero. Il co-autore King ne è testimone: «Era davvero concentrato sul cambiamento della vita dei bambini e sul potenziamento della prossima generazione di giovani atleti. Diceva: “Se un bambino prende questo libro e trova la fiducia in sé stesso per perseverare, abbiamo fatto il nostro lavoro ... Lo stiamo facendo per quel ragazzo”… Kobe ci credeva davvero». Del resto lo stesso Bryant aveva spiegato al Los Angeles Times che non voleva guardarsi indietro e sentirsi appagato per aver «avuto una carriera di successo, perché ho vinto così tanti campionati e segnato così tanti punti», ma intendeva lasciare qualcosa di diverso: «Devi fare qualcosa che abbia un po’ più di peso, un po’ più di significato». 

 

Dietro allora le righe di Coach Wizenard si può carpire la grandezza di Kobe, i principi che l’hanno reso una leggenda dello sport ma anche un uomo e un fuoriclasse oltre il parquet. La passione, i sacrifici e la voglia continua di migliorarsi di quel ragazzino che - con orgoglio lo ricordiamo - ha cominciato a palleggiare in Italia, al seguito di suo padre Joe giocatore in Serie A. Un legame con il nostro Paese di cui andava fiero, come provano i nomi delle figlie (Gianna Maria chiamata “Gigi”, Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe) e il tifo per il Milan. Un perfezionista ma anche un uomo capace di riconoscere i suoi limiti nel momento più drammatico della sua esistenza, quando dovette fare i conti con l’accusa di stupro (poi archiviata): «Avevo venticinque anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha aiutato davvero durante quel processo sono cattolico, sono cresciuto come cattolico, i miei figli sono cattolici - è stato parlare con un sacerdote. E lui mi disse: “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è tutto nelle sue mani. È una cosa che non puoi controllare, quindi lascia stare”. E quello è stato il punto di svolta». 

 

Per la sua infedeltà ha rischiato di mandare all’aria il suo matrimonio con sua moglie Vanessa Cornejo e in un documentario (Muse) Kobe ha svelato che per le tensioni di quel periodo lei ebbe anche un aborto spontaneo: «Tutto ciò è avvenuto a causa mia. È una cosa con cui devo fare i conti ogni giorno, me la porterò dentro per sempre... Vanessa è stata fantastica, avrebbe potuto lasciarmi e portarmi via metà del mio patrimonio, ma ha deciso di credermi e di restarmi vicino». Se dopo aver sperimentato l’inferno è riuscito a risollevarsi, se il suo rapporto di coppia è rinato e rimarrà indissolubile per sempre (basta leggere i toccanti post sui social di Vanessa), se chi l’ha conosciuto da vicino parla di lui come un uomo, un marito e un padre modello… Kobe lo deve - come ha ribadito lui stesso più volte - alla fede. Anche se molti mass media, molte pubblicazioni tendono a ignorarlo. 

 

E non è un caso se anche quella tragica mattina Bryant con sua figlia era in chiesa per la Messa domenicale. Chi omette il suo travaglio interiore e la sua conversione rimarrà sempre ancorato all’immagine di Kobe prigioniero del suo ego e del suo professionismo esasperato, maniacale e anche spigoloso. E forse si meraviglierà persino delle massime che il Mamba mette in bocca a coach Wizenard: «Nessuno vince da solo. Chi se lo dimentica non vincerà mai»; «Non conoscerai davvero la tua forza finché non avrai sperimentato la debolezza»; «Non lasciare mai che il desiderio di avere di più prenda il posto della gratitudine La realtà è che Kobe aveva ben compreso come il basket non sia semplicemente un gioco. Ma tutto lo sport, con i successi e le sue sconfitte, è una metafora della vita stessa. Che il fuoriclasse vero come il cristiano non è colui che non cade mai, ma chi si rialza sempre. E che non c’è niente di più grande del testimoniare questo ai propri figli, a tutti i ragazzi e agli atleti che vogliono lasciare il segno anche fuori dal campo. «Lo sport ci unisce come nient’altro. Mette a nudo la nostra anima - dice coach Wizenard - Se vuoi diventare un giocatore di basket migliore, devi diventare una persona migliore. Tutti noi abbiamo una stanza buia. Tutti noi abbiamo cicatrici. Un campione va avanti a prescindere».

 

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