Un caffè per... il Venezuela!

A questa terra così ferita andrà il ricavato raccolto durante la Festa dei Giovani allo stand dell'Animazione Missionaria...

Un caffè per... il Venezuela!

del 14 febbraio 2019

A questa terra così ferita andrà il ricavato raccolto durante la Festa dei Giovani allo stand dell'Animazione Missionaria...

 

L'anno scorso è stata un successo l'iniziativa missionaria del caffè per la Siria! Quest'anno, forti di questa esperienza, riproponiamo il caffè solidale alla Festa dei Giovani, ma con una destinazione diversa: il Venezuela.

A questa terra così ferita andrà il ricavato raccolto durante la Festa dei Giovani allo stand dell'Animazione Missionaria, che offrirà caffè e dolcetti.

Per capire un po' meglio la situazione venezuelana ci proponiamo intanto un reportage apparso sul Corriere della Sera

 

In fuga da fame, inflazione e insicurezza. “C’è stato un tradimento”

A partire dal 2015, sono stati 154.000 i venezuelani che hanno abbandonato il loro paese a causa della scarsità degli alimenti e dell’insicurezza e attraversato la frontiera con il Brasile. Alle loro spalle si stima che ormai il 90% delle persone viva in povertà, con la crescita dei prezzi al consumo che nell’ultimo anno è cresciuta di 1,3 milioni di punti percentuali.

L’Alto Commissariato per i rifugiati dell’ONU stima che tra i 400 e i 500 venezuelani attraversino questo confine ogni giorno. Ma Pacaraima è poco più di un paese di frontiera, costellato da negozi che vendono beni per i viaggiatori di passaggio. Il lavoro scarseggia e il continuo afflusso di nuovi arrivati ha finito per esacerbare gli animi. Lo scorso agosto, in seguito alla rapina di un commerciante della zona, un gruppo di residenti brasiliani ha attaccato l’insediamento di alcuni migranti, cospargendo i loro averi di benzina e appiccando il fuoco.

Per quasi tutti l’unica meta possibile è la città di Boa Vista, in Brasile. Ma qui le cose non vanno molto meglio. Un tempo tranquillo centro urbano di 320.000 abitanti, con strade larghe e una urbanistica ben pianificata, oggi si stima che la città ospiti 25,000 venezuelani, anche se di questi solo 7000 hanno trovato ospitalità in rifugi ufficiali. Gli altri si sono arrangiati alla meglio, condividendo stanze e adattandosi a edifici a volte fatiscenti.

Chi non ha trovato una soluzione migliore si ritrova ogni sera di fronte alla stazione degli autobus e stende un materassino per dormire tra le carreggiate. “Per me c’è stato un tradimento,” racconta Brenda, 41 anni, che dal 25 marzo pianta qui la tenda con suo marito. “Quello che sta accadendo ora in Venezuela non era mai successo, né con il Presidente Chavez, né prima di lui.” Per arrivare in Brasile hanno venduto il televisore e gli strumenti di lavoro del marito. Con il ricavato hanno potuto acquistare poco più di due biglietti dell’autobus.

 

Una vita tra strada e sfruttamento

L’ultimo rifugio è stato aperto a fine ottobre, andandosi ad aggiungere agli altri dodici esistenti. “Stiamo lavorando per garantire nuovi posti letto, ma il flusso non accenna a diminuire e quindi in molti rimangono ancora per strada,” racconta Tássia Sodré, cooperante dell’ong AVSI Brasil che gestisce quattro di queste strutture, assistendo più di 1500 persone. “Molti di loro arrivano senza nulla. E hanno bisogno delle cose essenziali: una casa, da mangiare, dei vestiti.”

Al sorgere del sole, Brenda e tutti gli altri accampati devono raccogliere i loro pochi averi e sgombrare l’area. Per molti, la giornata proseguirà agli incroci stradali, stringendo un pezzo di cartone con scritto “Procuro trabalho”, cerco lavoro.

“Ho fatto di tutto: tagliare siepi, costruire muri, pitturare macchine,” racconta Davis, 25 anni. Lavori saltuari, alla giornata, che almeno gli hanno garantito di poter mangiare.  “Un brasiliano viene pagato attorno ai 100 reais (22 euro),” spiega, “ma a me non hanno mai pagato più di 70 (16 euro), e a volte anche attorno ai 20 (4 euro) per lavorare 12 ore al giorno.” Quello dello sfruttamento è un problema sempre più diffuso: secondo l’ufficio del difensore pubblico locale (DPU), i venezuelani nelle fattorie vicine non ricevono salari che superano 1000 reais (225 euro) per un mese di lavoro.

Purtroppo di altre opportunità ce ne sono ben poche. Il Roraima è infatti lo stato con il Pil più basso di tutto il Brasile, e l’economia locale si basa esclusivamente sui servizi e sull’amministrazione pubblica, tanto che viene stata spesso additata ironicamente come un fabbrica di “buste paga”. Come se non bastasse, lo stato sta attraversando una grave crisi fiscale, tanto da essere sottoposto a commissariamento.

Oggi Davis si reputa fortunato: insieme a sua moglie Moreida, 22 anni, e Rachel, la loro bambina nata nel 2016, sono riusciti a entrare in uno dei rifugi temporanei. Presto, Rachel avrà un fratellino con cui giocare. Quando si misero in viaggio, Moreida era infatti già incinta di quattro mesi. E non aveva nessuna intenzione di ripetere l’esperienza di partorire in un ospedale venezuelano: “Non c’erano medicine e sono stata lasciata da sola in una stanza piena di donne in travaglio.” racconta. Dopo il parto, trovare pannolini e acido folico per la neonata era praticamente impossibile. “Non volevo che un altro figlio dovesse passare per tutto questo, e francamente nemmeno io.”

Juan Manuel, Brenda, David e Moreida: per tutti loro, il Brasile ha rappresentato l’ultima spiaggia dove cercare un approdo. I venezuelani più benestanti avevano infatti già lasciato il paese con mezzi privati, dirigendosi verso destinazioni come Miami. Chi è arrivato in Brasile appartiene invece spesso alla partefragile della popolazione. E tra i più colpiti si trovano le comunità indigene del sud del paese, come i warao.

Baudillo Centeno ricorda con nostalgia quando Chavez convocava i rappresentanti del suo popolo in riunione. Lui stesso partecipò a diverse celebrazioni con il “comandante”, danzando negli abiti tradizionali. Ma con lo scarseggiare di alimenti e lo svilupparsi del contrabbando, chi come lui lavorava come facchino è rimasto senza alternative.

Nonostante chi si trova in un rifugio si consideri fortunato, Boa Vista rappresenta un vicolo cieco.  La città dista infatti quasi 800 km da Manaus, il centro urbano più vicino, mentre per arrivare a São Paulo, capitale finanziaria del paese, bisogna viaggiare in macchina per quasi 60 ore.

Dopo gli incidenti di agosto, l’allora presidente Michel Temer ha così dato impulso a un programma di redistribuzione volontaria verso altri centri urbani di grandi e medie dimensioni. I migranti che vogliono lasciare Boa Vista si iscrivono nelle liste di attesa, e, appena le città riceventi comunicano di avere disponibilità per accoglierli, vengono caricati su un volo di linea a spese del governo.

La risposta è stata finora positiva: secondo l’Unhcr, il 70% dei venezuelani che si registra al confine desidera poi essere trasferito in una zona più prospera del paese.

 

Una accoglienza che inizia a funzionare

Jarvis Enrique, 25 anni, ha dormito sui cartoni per le strade di Boa Vista per quasi tre mesi, prima di prendere parte al programma. Oggi vive con la sua compagna a São Paulo, dove ha trovato lavoro in un ipermercato per il bricolage.

Se è vero che la redistribuzione può rappresentare un primo passo verso un modello efficace e rispettoso sia della necessità dei profughi che di quelle dei territori che li ricevono, molto resta ancora da fare. “Bisogna pensare anche a cosa accade dopo che uno arriva nel centro di accoglienza, non solo al viaggio,” spiega Padre Paolo Parise, missionario scalabriniano del centro per rifugiati di São Paulo Missão Paz, che ha accolto e organizzato colloqui di lavoro per quasi 300 venezuelani quest’anno.

Creata nel 1939 per aiutare gli emigrati italiani in Brasile, oggi per Missão Paz passano circa 80 nazionalità diverse. A loro viene offerto non solo un tetto, ma anche consulenza legale, insegnamento della lingua locale e, soprattutto, un servizio di orientamento al mondo del lavoro. Secondo Parise, il Brasile ha certamente la capacità di assorbire questi persone, “ma bisogna preoccuparsi di come si inseriscono, come imparano la lingua, come trovano lavoro, mentre l’enfasi è stata data soprattutto allo spostarsi da un luogo all’altro.”

Finora circa 4000 venezuelani sono stati redistribuiti in 13 diverse città. Ma per Antonio Denarium, candidato vincente del partito di Jair Bolsonaro e oggi Commissario federale straordinario per la regione, ci sono ancora troppi migranti per le strade della sua città. “Il Venezuela non entra nel nostro stato,” ha dichiarato additando l’immigrazione come principale causa della violenza e della criminalità nella regione.

 

Frontiere chiuse con Bolsonaro?

Finanziere, imprenditore immobiliare e dell’agribusiness, Antonio Oliverio Garcia de Almeida  (vero nome di Denarium), è al suo primo incarico pubblico come governatore dello Stato di Roraima ma sul tema ha idee molto chiare. “Il processo di interiorizzazione è troppo lento,” spiega, “e per questo gli dobbiamo dare più tempo, restringendo il flusso degli arrivi.” Secondo il suo programma, chi non è in possesso di un passaporto, di una fedina penale pulita e delle necessarie vaccinazioni non potrà entrare in Brasile.

Ma spesso chi arriva dall’altro lato della frontiera racconta come sia diventato lungo e tedioso riuscire a ottenere dei documenti in regola. Per aiutare i migranti che rimarranno bloccati, Denarium propone di stipulare un accordo con il Venezuela stesso, inviando l’esercito brasiliano a organizzare strutture di accoglienza e sostegno umanitario oltre la frontiera.

Per il governatore si tratterebbe di un modello che il Brasile aveva già sperimentato ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Ma, a differenza del Venezuela, il governo haitiano non aveva negato l’esistenza della crisi migratoria, accusando la destra di promuovere una campagna ingannevole per sedurre i propri concittadini a lasciare il paese. Che una simile operazione possa essere portata avanti sembra quindi improbabile.

Si tratterebbe oltretutto di competenze ben al di là dei poteri di Denarium, che investirebbero direttamente il governo federale. Ovvero Jair Bolsonaro. Durante la campagna elettorale, le idee dei due sembravano allineate: anche il “capitano”, aveva infatti parlato di creare campi profughi lungo la frontiera.

Ma da novembre sembra che il filo diretto si sia spezzato: mentre Denarium ha chiesto pubblicamente l’attuazione di un “programma di ritorno,”  Bolsonaro ha chiuso le porte a una simile ipotesi, sottolineando come i migranti non siano “merce di scambio”, dato che, secondo lui, fuggono da “una dittatura supportata da Lula [Da Silva] e da Dilma [Rouseff, precedenti presidenti del Partito dei lavoratori].”

Il 17 e 18 gennaio, quattro ministri del nuovo governo viaggeranno nella regione per verificare le condizioni dei venezuelani. In occasione della visita, Bolsonaro ha fatto sapere che l’intervento umanitario e il programma di redistribuzione saranno prorogati.  Fernando Azevedo, ministro della difesa, ha inoltre dichiarato che per ora non è prevista alcuna chiusura delle frontiere.

Chi nei rifugi aspetta pazientemente di vedere il proprio nome nella lista dei passeggeri del prossimo volo in partenza può tirare un sospiro di sollievo.

Web reportage realizzato grazie alla residenza presso Casa Pública dell’Agencia Pública (apublica.org)

 

La Redazione

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