Un falso diritto

Il Consiglio d'Europa e l'aborto. Nel testo spunta la parola «diritto», riferito all'effettivo accesso all'aborto. Ciò stupisce in quanto è la prima volta che in un documento ufficiale del Consiglio d'Europa ‚Äì così come in quelli delle Nazioni Unite ‚Äì si parla dell'aborto come di un «diritto». Ma è davvero possibile postulare fondatamente un «diritto all'aborto»? Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso?

Un falso diritto

da Quaderni Cannibali

del 29 aprile 2008

L’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha approvato il 16 Aprile scorso la risoluzione 1607 che invita i 47 Stati membri a orientare, laddove necessario, la proprio legislazione in maniera da garantire effettivamente alle donne «il diritto di accesso all’aborto sicuro e legale». Il documento è stato approvato con 102 voti a favore, 69 contrari e 14 astenuti, dopo un lungo dibattito che ha deciso sull’inclusione nel testo provvisorio di ben 72 emendamenti proposti in precedenza.

La risoluzione approvata inizia ribadendo il principio che in nessuna circostanza l’aborto deve essere inteso come un mezzo di pianificazione familiare e che, nei limiti del possibile, esso deve essere evitato (cfr n.1). A tal fine, la risoluzione raccomanda che sia messo in atto ogni mezzo, purché compatibile con i diritti delle donne, per ridurre sia le gravidanze indesiderate che gli aborti stessi. Sembra dunque che, almeno in linea di principio, l’introduzione del documento riconosca e affermi chiaramente che l’aborto è una realtà in se stessa negativa, da evitare nei limiti del possibile con ogni sforzo.

Nel testo viene poi ricordata la presenza nella maggior parte degli stati membri di dispositivi di legge che, sotto precise condizioni e circostanze, «permettono» l’aborto nei casi previsti.

E’ qui che la risoluzione manifesta una preoccupazione concreta: il pericolo che in alcuni paesi del consiglio dove l’aborto è permesso, di fatto, non possa essere garantito alle donne che lo richiedessero «un effettivo accesso ai servizi per l’aborto che siano sicuri, sostenibili, accettabili ed appropriati» (n. 2), e ciò a causa di condizioni eccessivamente restrittive previste dalle apposite disposizioni legislative, che finirebbero per provocare effetti discriminatori tra le donne.

Ed è proprio a questo punto che nel testo spunta la parola «diritto», riferito all’effettivo accesso all’aborto. Ciò stupisce in quanto è la prima volta che in un documento ufficiale del Consiglio d’Europa – così come in quelli delle Nazioni Unite – si parla dell’aborto come di un «diritto». Dal punto di vista legislativo, infatti, una cosa è permettere o depenalizzare l’aborto effettuato in determinate circostanze, altro è definirlo come un «diritto», a cui dovrebbe logicamente corrispondere anche un dovere di tutela del medesimo. Ma è davvero possibile postulare fondatamente un «diritto all’aborto»? Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso? A meno di adottare criteri antropologici discriminatori e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere umano uguale dignità e diritti fondamentali, questa pretesa è del tutto infondata e arrogante; essa può essere giustificata solo da impostazioni di pensiero fortemente ideologiche o parziali, che non pongono la persona umana – o almeno, non ogni singola persona umana – come fine ultimo e misura della vita sociale, e quindi della regolazione legislativa.

 

Anche l’affermazione che «l’aborto non deve essere vietato entro limiti gestazionali ragionevoli» (n. 4) suscita domande e perplessità. La ragionevolezza cui si fa riferimento, infatti, sembra essere commisurata su motivi riguardanti esclusivamente la salute della donna ed i costi sociali. Nulla si dice invece sulla realtà dell’essere umano (embrione) da abortire, la cui dignità essenziale è legata alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo biologico. In relazione al suo «diritto» di tutela alla vita, dunque, non esistono e non possono esistere «limiti gestazionali ragionevoli» entro i quali sia possibile derogare a tale diritto fondamentale, poiché la vita umana individuale possiede il suo valore peculiare ed inalienabile in ogni momento della sua storia personale.

Nella stessa direzione, proseguendo nella lettura della risoluzione 1607, un altro elemento crea forti perplessità; si tratta della riaffermazione (cfr n. 6), di per sé opportuna e giusta, del diritto di ogni essere umano – e non si capisce perché il testo senta il bisogno di specificare «incluse le donne», cosa che appare del tutto scontata e, quindi, offensiva nei confronti delle donne stesse – al rispetto della propria integrità fisica  alla libertà della gestione del proprio corpo. Sulla base di questa affermazione, il testo conclude che «la decisione ultima di ricorrere o no all’aborto è una questione che appartiene alla donna interessata, la quale deve avere i mezzi per esercitare questo diritto in maniera efficace». La conclusione non sembra del tutto coerente con l’affermazione di principio iniziale. Se, infatti, viene riconosciuto il diritto alla tutela dell’integrità corporea di ogni essere umano, ciò va rivendicato appunto per tutti gli esseri umani, senza distinzione; ora, nel caso dell’aborto, la donna è solo uno degli esseri umani coinvolti, non l’unico. Anche il figlio, embrione o feto, lo è. Se è sacrosanto rivendicare il rispetto per l’integrità corporea della madre, altrettanto lo è affermare e rivendicare quella del figlio, tanto più che quest’ultimo non è in condizioni di reclamare e difendere da solo i propri interessi. Nel caso dell’Aborto, da questo punto di vista vi sono due fronti di interesse da far convergere e tutelare insieme: la salute della madre e quella del figlio. Il concepito non può certo essere ridotto a «parte del corpo della donna gravida», come ormai dimostra senza alcuna ragionevole incertezza la moderna embriologia. La risoluzione 1607 glissa troppo velocemente su questo fondamentale aspetto, tentando di far passare come del tutto scontate affermazioni di significato antropologico e valoriale che sono invece del tutto discutibili, se no altro in nome di quel pluralismo di pensiero tanto rivendicato proprio dai sostenitori di queste affermazioni. Di conseguenza, è del tutto artificiale e «populistica» la reiterata accusa, mossa alla Chiesa cattolica da parte di alcuni parlamentari in sede di discussione del documento, di agire e parlare col fine di «privare le donne del loro diritto più fondamentale: quello di disporre del loro corpo». Un’idea del genere è assolutamente estranea all’insegnamento e agli intenti della Chiesa, ma soprattutto rappresenta una palese riduzione discorsiva della realtà: l’aborto volontario non può essere ridotto a una mera questione di gestione del corpo della donna; esso, infatti, include allo stesso tempo la drammatica scelta di distruggere una vita umana, quella del figlio, il cui valore di fondo è pari a quello della madre.

 

Un ultimo rilievo bisogna fare circa le possibili soluzioni che il documento prospetta per eliminare il più possibile il fenomeno dell’aborto. A tal fine si fa riferimento ad appropriate politiche di «salute sessuale e riproduttiva», ma soprattutto all’esigenza di rendere «obbligatoria» una educazione sessuale e relazionale (modulata sull’età e sul «genere» del soggetto) rivolta ai giovani. L’offerta di una proposta educativa sul piano della sessualità e della relazionalità è senz’altro un valore, che costituisce peraltro un dovere degli adulti nei confronti dei più giovani, soprattutto da parte dei genitori nei confronti dei propri figli; allo stesso tempo, per i genitori questo impegno rappresenta anche un diritto, da esercitare nella libertà di scelta dei valori e dei significati da trasmettere alla propria discendenza. Sembra invece molto difficile immaginare che possa essere la società nel suo insieme – la scuola? Altre strutture? – a svolgere questo tipo di funzione educativa, poiché occorrerebbe scegliere e inevitabilmente imporre un modello valoriale e interpretativo, violando la libertà di scelta dei genitori stessi. Oppure pensare, come fa un po’ «ingenuamente» la risoluzione 1607, che sia possibile dare su tali fondamentali tematiche semplici informazioni «neutre», senza valori etici, senza punti di riferimento antropologici. Non a caso, infatti, il documento riafferma l’importanza di diffondere in larga misura conoscenze e strumenti di contraccezione, con la convinzione che così facendo si otterrà una forte diminuzione del fenomeno dell’aborto.

Sulla base di statistiche ufficiali e convincimenti antropologici del tutto diversi, riteniamo di dover riproporre la via dell’impegno per un’integrale educazione al valore della vita umana, all’amore e all’affettività (che comprende anche la sessualità), soprattutto a carico dei genitori verso i figli, come principale ed efficace strada per allontanare la piaga dell’aborto, legale o clandestino che sia. Pensiamo anche che la società tutta, e in particolare coloro che ne portano la responsabilità di guida, debbano agire efficacemente per tentare di rimuovere ogni difficoltà concreta (materiale, sanitaria, psicologica, economica, sociale e così via) che spinga una donna a ricorrere all’aborto.

Concludendo, l’affermazione relativa al «diritto di aborto» introdotta contro la logica della prevenzione e dell’educazione, verrebbe in ogni caso ad annullare il diritto alla vita del bambino concepito e rappresenta un’interpretazione selettiva e soggettivistica del diritto stesso, contraria all’originaria accezione dei diritti umani in cui il diritto alla vita è originario, fondamentale e preliminare rispetto a tutti gli altri diritti dell’uomo.

 

Fonte: Osservatore Romano, 27.04.08

 

mons. Elio Sgreccia

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