Intervista con il postulatore della causa di beatificazione del cardinale Van Thu√¢n, che ha vissuto la fame, il freddo e il disprezzo di un incarcerato. È stato vittima di un sistema totalitario accecato che lo ha arrestato senza alcuna accusa, solo perché era “pericoloso”. Ma era convinto che tutto facesse parte del piano di Dio, sperava contro ogni speranza e amava i suoi persecutori.
Parlare del Servo di Dio, il cardinale François-Xavier Nguyen Van Thuân, significa confrontarsi con una vita provata dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dalle tre virtù teologali: fede, speranza e carità.
Egli ha vissuto la fame, il freddo e il disprezzo di un incarcerato. È stato vittima di un sistema totalitario accecato che lo ha arrestato senza alcuna accusa, solo perché era “pericoloso”. Ma era convinto che tutto facesse parte del piano di Dio, sperava contro ogni speranza e amava talmente i suoi persecutori che alcuni di loro si sono convertiti mentre era in carcere.
Abbiamo parlato con Waldery Hilgeman, postulatore del processo di beatificazione.
Di tutto quello che emerge dallo studio della vita del cardinale Van Thuân, che cosa l’ha colpita di più?
È un personaggio estremamente complesso, nel senso che tutta la sua vita è stata come continue gocce di Vangelo, una pioggia incessante di santità, sin dal inizio. Un aspetto che mi colpisce nella sua spiritualità è la costanza dell’amore per il prossimo. È stato infatti recluso e, durante questa prigionia, non ha mai smesso di amare coloro che erano i suoi persecutori, dai funzionari più di più alto grado del regime, alle guardie carcerarie più in basso. Quest’amore totale di Cristo, disinteressato anche verso il nemico, colpisce assai fortemente oggi, in un contesto sociale in cui si vive di tanto egoismo.
Di che cosa fu accusato esattamente?
Il cardinale Van Thuân è stato un prigioniero senza colpa, nel senso in cui non c’è mai stata un’accusa vera e propria a suo carico, così come non c’è mai stato un processo e tanto meno una sentenza. Quindi riuscire adesso a dire di che cosa è stato accusato è un grande interrogativo anche per noi. Ci sono tanti fattori nell’ambiente sociale di quel periodo che indicano che questo vescovo era “pericoloso” per un sistema vuoto, un sistema basato sul nulla come quello comunista, ma un’accusa formale non c’è mai stata.
Leggendo gli scritti del cardinale in carcere, quale era il suo spirito, la sua riflessione come prigioniero?
La riflessione che colpì il cardinale sin dal primo momento della sua prigionia, durata 13 anni, era quella che Dio gli chiedeva di dare tutto, di lasciare tutto e di vivere per Dio. Infatti il cardinale ha sentito - soprattutto nel primo periodo della sua prigionia - qualcosa di molto forte: l’opera di Dio, è Dio. Già in precedenza, da arcivescovo coadiutore, Van Thuân viveva per l’opera di Dio. E lui ha percepito che con, questa prigionia, Dio gli chiedeva di lasciare la sua opera e di vivere solo per Lui.
Lei avrà letto molti aneddoti e racconti di testimoni del periodo in carcere…
L’aneddoto più bello è la conversione di una delle sue guardie carcerarie. Non bisogna dimenticare che varie di queste guardie, incaricate di sorvegliare questo prigioniero, alla fine, si sono convertite. Il cardinale Van Thuân, con l’amore totale verso queste persone, ha dimostrato quello che è il amore di Cristo. Quindi, senza poter predicare, senza poter parlare direttamente di Cristo con queste persone, con il suo esempio di Cristo incarnato è riuscito con il tempo a convertirle. Rimane un aspetto molto peculiare.
Per il processo di beatificazione, la Chiesa ha potuto mettersi in contatto con queste guardie?
Il contesto politico rende molto difficile avere contatti con queste persone. Certamente non sono state interrogate nel corso del processo, comunque, in un modo forse del tutto straordinario, riusciremo ad inserire la loro testimonianza negli atti processuali, su cui si possono ricostruire la vita e le virtù eroiche del cardinale Van Thuân.
Dopo il suo trasferimento a Roma, qual è stato il contributo principale del cardinale Van Thuân alla Chiesa universale, ad esempio come capo di un dicastero vaticano?
In realtà sembra quasi che Dio avesse voluto sin dall’inizio preparare il cardinale Van Thuân al suo ministero presso la Curia romana e al servizio del Papa e di tutta la Chiesa universale. Perché già da giovane vescovo aveva puntato molto sul ruolo del laicato nella sua diocesi e un maggiore coinvolgimento dei laici nel tessuto sociale vietnamita. Basta pensare che in pochissimi anni è riuscito a raddoppiare il numero di vocazioni, senza sperare di avere sacerdoti: lo ha fatto puntando su buoni laici al servizio della Chiesa, che potevano essere chiamati da Cristo.
Ha lavorato anche per il Pontificio Consiglio per i Laici…
Il cardinale Van Thuân si è sempre molto battuto per quello che è il ruolo dei laici nel suo Paese, perché giustificava la loro presenza come diretti testimoni di Cristo nella politica, nella vita sociale, nel lavoro. Non a caso è stato uno dei primi ad essere chiamati al Pontificio Consiglio per i Laici, quando era ancora in fase di costruzione. Nonostante vivesse dall’altra parte del mondo, sin dall’inizio la Santa Sede teneva d’occhio le potenzialità di quest’uomo.
Poi collaborò a “Giustizia e Pace”...
Si può dire che con il suo arrivo a Roma le cose sono cambiate, perché il ruolo del Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace” è quello di un dicastero di estrema sensibilità nel nostro contesto, perché dedica attenzione all’economia, alla giustizia, alla fame nel mondo, alla pace, alla solidarietà e così via; ingloba tutta la Dottrina Sociale della Chiesa. Ora un vescovo che viene da un tessuto sociale di estrema povertà, come era il Vietnam, e che per di più è stato incarcerato, ha vissuto quindi sulla propria pelle quella che è l’ingiustizia nel mondo per il semplice fatto di essere cristiano. Non c’è dubbio che Gesù l’ha preparato molto bene a quello che sarebbe stato il suo ministero qui a Roma.
Può dire qualcosa sul processo di beatificazione?
Il processo è molto particolare. E siamo fortunati che questo processo si stia svolgendo presso il Tribunale del Vicariato di Roma, che certamente è un tribunale con molta esperienza. È una causa molto grande, relativa a un personaggio che ha viaggiato molto, che coinvolge fedeli ed immigrati che vivono in tutti i continenti. Quindi il lavoro è immenso. Certamente da quando il processo è iniziato presso il Vicariato nell’ottobre 2010, fino ad oggi, abbiamo fatto dei passi da gigante, ascoltando circa 130 testimoni, tra cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici, tutta la realtà della Chiesa. In quest’ambito il processo si è anche spostato, basti pensare che siamo andati in Australia, dove abbiamo interrogato numerosi testimoni; negli Stati Uniti, dove una proporzione significativa della popolazione - anche immigrati vietnamiti - è stata interrogata. Siamo stati in Germania, dove sono venuti molti fedeli dei Paesi confinanti, Olanda e Belgio; siamo stati anche in Francia. Direi che siamo in una fase molto avanzata.
Si ha notizia di qualche presunto miracolo?
Ce ne sono diversi. Io come postulatore, insieme al Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che promuove la causa, sto studiando con l’assistenza di esperti - medici in questo caso - quale sarebbe il modo più idoneo per iniziare un eventuale processo sul miracolo che poi potrebbe portare il cardinale Van Thuân alla canonizzazione.
Che messaggio può inviare ai tanti “devoti” del cardinale Van Thuân, che sperano vederlo presto agli altari?
Nei suoi scritti e nei suoi libri, c’è un termine ricorrente, che appare anche nelle testimonianze che arrivano davanti al Tribunale, ed è questo: la speranza, non perdere la speranza in Dio. François-Xavier Nguyen Van Thuân potrà diventare il “santo della speranza”.
José Antonio Varela Vidal
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