V. Non ho voglia.

Lo so, dovrei; ma non ho voglia. Mi do per sordo, mi raggomitolo, divento ispido: nessuno deve permettersi di toccarmi. La freccia della chiamata, esattamente mirata, si spunta su di me. Ho una pelle dura, una pelle ben ingrassata; su di essa scivola il richiamo come acqua su piume di anitra. Mi rifaccio ai miei diritti, garantiti molto in alto, in forza della natura che ho ricevuto...

V. Non ho voglia.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Lo so, dovrei; ma non ho voglia. Mi do per sordo, mi raggomitolo, divento ispido: nessuno deve permettersi di toccarmi. La freccia della chiamata, esattamente mirata, si spunta su di me. Ho una pelle dura, una pelle ben ingrassata; su di essa scivola il richiamo come acqua su piume di anitra. Mi rifaccio ai miei diritti, garantiti molto in alto, in forza della natura che ho ricevuto, che io sono, in forza degli impulsi e delle abitudini radicatesi in me che vogliono vita e sviluppo. Che nessuno mi contesti questi diritti, neppure in alto loco. E se qualcuno osasse tentarlo, deve saperlo: non ho voglia.

Lieve, quasi impercettibile e tuttavia facendosi del tutto sentire, arrivava fino a me: un raggio di luce, un’offerta di energia, un comando, che è più e meno di un comando allo stesso tempo. Una preghiera, un invito, un’attrattiva: breve come un battito di palpebre, semplice da capire, come lo sguardo di due occhi. E dentro una promessa: amore, gioia e sguardo verso un’immensa, vertiginosa lontananza. Liberazione dall’insopportabile prigione del mio io. L’avventura che io mi sogno da sempre. Il perfetto ardimento in cui sarei sicuro, abbandonando ogni cosa, di acquistare finalmente tutto. La sorgente della vita, inesauribilmente aperta per me, che muoio di sete. Lo sguardo è interamente calmo, non ha un briciolo di forza magica, di costrittività ipnotica. È uno sguardo che domanda, mi lascia libero. Sul suo fondo si alternano le ombre dello struggimento e della speranza.

Abbasso gli occhi; guardo da lato. Non voglio affrontare quegli occhi per dirgli in faccia di no. Lascio loro il tempo di volgersi altrove, di ritirarsi nella loro caverna che è l’eternità. Di farsi crepuscolari, di scomparire. Non sono a casa; il signore fa dire che non è disponibile per il momento. Lascio a quegli occhi il tempo di lasciar di nuovo calare le pesanti palpebre dell’eternità, il sipario. Per un secondo, proprio nell’attimo in cui me ne rendo conto. Troppo tardi, mi trapassa un dolore senza nome: la felicità è giocata, l’amore disprezzato, nessuno me lo riporta indietro! La porta del carcere riempie il castello col suo rumore: prigioniero un’altra volta. In ciò che mi è così caro, così odioso: in me stesso.

Respinto. Ancora una volta allontanato. Tenere se stessi così forte che ho dovuto scivolar via. Per fortuna di nuovo solo. No, non proprio solo. Solo con un peso, una pressione, che sale, diventa intollerabile, che si deve estromettere il più rapidamente possibile. Mi guardo tutt’intorno per un attimo: dove poter rigirare questo peso? È rapido, mi preme e mi schiaccia, so solo una cosa: via di qui! E lo appendo al primo che si presenta. Scartato, allontanato due volte. E tuttavia solo una volta. Il respinto è colui al quale l’ho appeso. Su di lui resta appeso. In una volta sola scarto le due cose: la grazia e la colpa. Poiché non ho voluto portare il peso della grazia, mi libero della colpa.

Adamo, dove sei? Adamo, che cosa hai fatto? Io non ho colpa, la donna mi ha sedotto. Donna, che cosa hai fatto? Il serpente mi ha sedotta. Uomo, che cosa hai fatto? La tua creazione, Signore, la tua bella natura, il veleno nelle foglie e nei fiori, la spina sotto la rosa, l’animale nella rosa... Caino, che cosa hai fatto? Sono io il custode di mio fratello? Sono io il custode del mio sangue?

Così fan tutti. Corre così il mondo. Si è abituati così. Sono un uomo anch’io. Ecce homo. Ci si libera sull’uomo.

La vita è realistica. Ai sensati, agli obiettivi si dà sempre ragione. Ma certo, c’è anche l’ora dello spirito, dove strane cose ti toccano, ti sfiorano il viso come la piuma di un uccello notturno nell’oscurità. Tu rabbrividisci ed hai un sussulto, i capelli della tua anima si scapigliano a contatto dell’inafferrabile che passa presto. Sarebbe comunque possibile, ci sarebbe una via d’uscita, questa porta immaginaria, questa via stregata, il ponte invisibile sopra l’abisso, del quale ho sognato da ragazzo, da giovane, in cui ho anche creduto e sperato nella follia. Sarebbe possibile. Adesso, oggi ancora! Non sono stato dunque abbandonato, non ancora buttato via. Mi si cerca, si vorrebbe avermi, sembra perfin che si abbia bisogno di me. C’è da qualche parte un’immagine luminosa di me, di ciò che avrei potuto essere, di ciò che - ma in che modo? - potrei ancora diventare. Ma sempre più rade sono diventate queste ore dello spirito, e le vicissitudini di ogni giorno crescono e proliferano sempre più intense intorno a me, e ogni tanto il concavo diviene convesso e il convesso concavo, la chiusura a Dio sempre più ermetica, abitudinaria, una seconda natura. Forse è l’abitudine del peccato, la cattiva abitudine; questa, quando la sporcizia mi pende addosso e mi soffoca, mi dà nausea, e allora la misericordiosa natura mi dona il piacere e la possibilità di vomitare davanti a Dio la mia anima peccaminosa. Ma è anche forse l’abitudine della vita senza problemi, lo scalpiccio dell’esistenza ordinata, a cui si aggiunge come droga una goccia di rassegnazione. La cantilena della coscienza acquietata, a cui appartiene - come garanzia di profondità e di peso - anche un resto di cattiva coscienza. Dio è appunto l’indulgenza, Dio è appunto la grazia. Dio non pretenderà da me qualcosa di essenzialmente diverso dagli altri. Sono una persona in fondo etica che pensa eticamente. Non ho ammazzato nessuno, non ho assaltato banche, appiccato il fuoco a nessuna casa, non sono un pregiudicato. Sono un uomo, come altri, forse addirittura un po’migliore di altri. Questo lo si potrà dimostrare al giudizio: non si potranno sciorinare di me cose troppo pesanti. Dio lo sa, ho anche avuto della buona volontà. Mi sono regolarmente sforzato di nutrire con onore la mia famiglia e di migliorarne le condizioni; giorno e notte ho fatto in modo che i miei non avessero a mancare del necessario, ho lavato, cotto e comperato, ho cucito, stirato, risparmiato, provveduto, pensato al futuro; tutto sommato abbiamo avuto la benedizione dall’alto, mai mancato qualcosa da mettere sotto i denti, ogni domenica ci siamo meritatamente divertiti e abbiamo avuto alla fine la pensione. No, io non saprei veramente... Un momento, un altro particolare da non dimenticare: anche quanto a religione ho fatto i miei doveri. Sono un cristiano praticante, sono un buon cattolico. La domenica sono andato in chiesa. A Pasqua la comunione. Ho pagato la tassa per la chiesa. Ho fatto elemosina. Ho recitato le mie preghiere del mattino e della sera. Mi sono confessato più volte e validamente. Ho fatto i nove primi venerdì del mese (che mi conferiscono una garanzia di fronte a Dio riconosciuta dalla chiesa). Ho fatto la comunione ogni domenica, anzi ogni giorno.

Io ho, io ho. Muri ho innalzato contro Dio con la mia religione. Mi sono otturato le orecchie nei riguardi della voce di Dio con la mia pratica. Piano piano, inavvertitamente tutto ciò che la mia vita sarebbe potuta essere è diventato un meccanismo, dietro al quale la mia anima si è messa a riposo. La vita è così lunga, la continua ripetizione dell’identico così addormentante; chi abita presso la cascata non sente più, dopo una settimana, il rumore dell’acqua. Così abbiamo disimparato la vigilanza, la vista sveglia. Le sfere cantano, ma noi sentiamo ormai solo noi stessi e la cantilena dei nostri interessi. Fessure vengono otturate sempre più spesso, la voce divina viene sempre più ovviamente soffocata, murata, demolita nel sistema autonomo della nostra vita. Come all’uccello in gabbia, che di notte viene coperto, si permette di giorno il suo trillo, così io mi mostro incline a concedermi di tempo in tempo un lampo di parola di Dio. Nella forma di una predica, di un’ora biblica, o anche di una audizione della Passione secondo Matteo, di una poesia di Rilke, di un vago sacro sentimento davanti a un paesaggio. Le ore solenni della vita, avviluppate nel suo confort (è stato pagato a caro prezzo) sono sufficienti per il mio bisogno religioso, che comunque è spento al punto che non ho più bisogno di coprire la gabbia. Sotto il peso della mia buona coscienza, dentro il largo ripostiglio del mio buon cuore, la voce della verità è stata soffocata. Da troppo tempo è ammutolita.

Oppure io posso trasferire la colpa anche a domani. L’occhio che indefesso guarda verso di me intende sempre l’oggi: «Precisamente adesso voglio essere amato». Ma io abbasso i miei occhi e dico: ti amerò domani. Domani vedrai che cosa sono capace di fare per te. Il sacrificio che ti offrirò. Domani ti pagherò il doppio se mi concedi anche solo l’ora odierna. Devo ancora raccogliere la rosa prima che sfiorisca, ma a te darò le coccole. Dammi la primavera e allora io ti lascio l’autunno, forse già la tarda estate. Soltanto oggi distolgo da te il mio sguardo e tu potrai, a cominciare da domani, guardarmi sempre. «Vengo vengo, vengo subito!» grida il bambino alla madre che lo chiama preoccupata e gioca il suo gioco fino in fondo, giacché di sicuro c’è un prolungamento che va da sé dentro l’obbedienza. Una umana possibilità di gioco. Chi potrebbe dividersi a un tratto dalla sua vita? Perché, Dio, vuoi saltare con me gli scalini? Tu vuoi il tutto e d’un colpo, tutto il cuore, tutta l’anima, tutto il sentimento e tutte le mie forze, ma la legge della vita è l’evoluzione graduata. Tieniti anche tu, da buon educatore, a questa legge. Un quarto te lo voglio concedere e quando avrò trent’anni la metà, così avrai a poco a poco e sicuramente il tutto. Se mi strappo lacerandomi da ciò a cui sono abituato fino al midollo, sanguinerei o morirei addirittura dissanguato e tu avresti tra le braccia un morto, oppure guarderei indietro con la coda dell’occhio a ciò che ho superato solo esteriormente. Aspetta dunque finché non l’abbia gustato fino in fondo; quando poi avrò tra i denti il nocciolo vuoto, lo sputerò. Abbi pazienza finché l’onda che adesso mi porta in alto si abbassi o si svuota, finché il velo, che ora mi gioca leggero intorno al viso, si rompe, e il fondiglio dell’esistenza viene fuori. Si dice infatti che tu vieni trovato a preferenza nella delusione, sul lato d’ombra della vita. Oggi vai via e picchia un’altra volta al prossimo giro, allora io sarò un po’più avanti. Non voglio dire di buttarmi via, non assolutamente; tirami sempre, ma tira piano, agganciami, se proprio, impercettibilmente, a quel modo che il tempo inavvertitamente ci cambia da ragazzi in uomini e vecchi. Prendimi come per gioco in braccio, come una madre leva dalla culla il suo bambino che dorme. E se deve proprio accadere che soffra il dolore della separazione, allora vorrei ancora suggerirti, farti ancora questa confessione: che tu mi puoi prendere sempre domani se solo mi concedi l’oggi. Sono addirittura pronto a prendere su di me la tua croce, a fare la tua via crucis stazione per stazione fino al sacrificio totale, fino alla morte definitiva. Ma a una condizione: domani. Voglio anche tapparmi l’orecchiò, lo voglio già oggi, in mezzo al piacere, già ci penso e me lo tengo chiaro davanti agli occhi: domani ti seguirò. Come il condannato ad ogni boccone del suo ultimo pranzo pensa a domani, così io penso a te, con il proposito di darmi a te. Ma domani, domani, non oggi.

E ancora: io potrei offrirti molto. Perché pretendi così poco? Perché vuoi questo piccolo, miserabile cuore, buono a nulla? Non vedi che ti potrei ancora dare tutto? «Ti darò la metà del mio regno». Vuoi forse per compenso i miei beni? O la mia salute? O posso forse renderti contento con un voto? Oppure ogni giorno questa preghiera? O preferisci questa novena? Non ti piacerebbe questa gemma o quel cristallo? Se lo prendi in mano in questo modo vedrai come scintilla. Ti posso mostrare dei panni, dei ricami, dei broccati; profumi di olocausti e rinunce di ogni genere e una castità speciale. Guarda come le merci si somman sul mio tavolo: tutto questo è tuo e, per non apparire avaro, ti voglio dare ancora dell’altro; potrei essere un devoto speciale del tuo cuore, «che ha tanto patito per noi», per la conversione dei peccatori e dei cuori pertinaci voglio pregare e far penitenza. È dura per te, vero? I tempi sono brutti! La decadenza delle masse! E perfino la tua chiesa...! Bene, voglio vedere che cosa posso fare per te. Ma adesso, perdona, devo andare. E il cuore, non è vero, ormai sepolto sotto tutto questo ciarpame che ho rastrellato, sepolto al punto che l’abbiamo tutt’e due quasi dimenticato, tu me lo lasceresti fino alla prossima volta?

E poi ci sono anche molti altri: non si potrebbe distribuire un tantino i pesi? Se tutti insieme portassero un po’, non ci si accorgerebbe quasi. Gli altri possono legittimamente continuare a giocare, perché devo, proprio io, tornare a casa? Gli altri possono gustarsi le gioie della vita senza pena e pentimento, perché deve toccare proprio a me quest’amarezza della cattiva coscienza? Gli altri sognano futuri orizzonti e dolci crepuscoli, non sanno quello che fanno, i fortunati; perché collochi proprio me nella luce acuta del tuo sguardo?

L’uomo non si sviluppa bene a questa luce. O forse gli altri semplicemente, gli altri, non io. Non hai tu le tue particolari anime elette, che ti sei tu stesso creato e preparato per una simile vocazione? Le anime che hanno «disposizione religiosa»? Per queste è un piacere aver continui rapporti con te; sanno come si fa, sono delle esperte dell’amore. Da loro hai di più che da me. Non ti rifiuteranno nulla di ciò che desideri. Quelli dei conventi sono fatti per questo. I preti sono fatti per questo. La chiesa è fatta per questo. Supplet ecclesia. A dire il vero, un prete sta là davanti all’altare, distratto e stanco, sente dietro di sé[1] nella navata il gregge disperso inconsistente con la sua fiducia ottusa: là davanti si svolge qualcosa che in qualche modo (non sappiamo più in che modo) riguarda anche noi, là davanti gesticola uno che saprà quello che fa; lui ha l’ufficio, la responsabilità. Ma come può un uomo, fosse pure un prete, portare tutto il peso di tutta la comunità? Anche lui (per fortuna) è soltanto un uomo, soltanto un peccatore, ha sì cercato una volta di darsi, di non tenersi nulla. Ma le cose sono andate molto diversamente di come credeva. Non così facilmente il vecchio uomo si lascia imbrogliare, e quando va bene, spera anche lui in un domani. Ad ogni modo egli conosce la sua teologia. Sa che uno ha espiato e patito per tutti. Ci penserà lui. Su di lui può scaricare la propria soma. «Venite voi tutti che siete stanchi e oppressi». Lui stesso ha solo da mostrare agli uomini la strada che porta lassù. Il suo ruolo è d’ufficio. È solo il canale, solo la mediazione. La grazia la opera ex operato. E l’opera operata non è la sua, ma è la tua, Signore, e la carico su di te. Rimane appesa a te, alla fine.

Nessuno vuole. Ognuno si defila. In questo segno sei apparso nel mondo. Egli venne nella sua proprietà, ma i suoi non l’hanno accolto. Essi sanno esattamente che il re deve nascere in Israele. Sanno anche il luogo esatto: è Betlemme; lo spiegano a ognuno che domanda informazioni. Ma loro non ci vanno. E a Betlemme sei ad essi troppo vicino: ti cacciano fuori territorio, nell’emigrazione. E ti tollerano in Nazareth solo fin quando tu non ti fai conoscere. E il popolo giubila intorno a te soltanto finché moltiplichi loro il pane e racconti belle storie. E i discepoli vanno con te solo finché, abbagliati dalla speranza di un regno terreno, fingono di non sentire la profezia della tua crocifissione. Mai comincia a gareggiare al gioco del rigetto. Staccandosi dalla tua grazia, ti spingono dall’uno all’altro. Sei diventato una palla da gioco, e il gioco consiste nel fatto che ciascuno si disfà della palla il più presto possibile. Sei soprattutto di peso per coloro che ti stanno più vicino: via dalla Nuova Alleanza, via dalla tua chiesa, la pietra comincia a rotolare. A somiglianza del primo noi ti tradiamo tutti, a somiglianza col secondo, quello che hai scelto come la roccia, noi tutti ti rinneghiamo, per somiglianza con gli altri, noi tutti ti abbandoniamo. E, scacciato dalla tua chiesa, tu cadi in balìa del popolo antico, l’ebraico; cadi nello steccato del Patto che un giorno hai addossato a Israele. Però qui non sei meno malaccolto. C’era ieri questo Patto, e domani, quando verrà il Messia, ci sarà di nuovo. Ma oggi noi non conosciamo altro re che l’imperatore. E la palla rotola ancora più giù, fuori dallo steccato dell’Alleanza e ricade indietro verso il popolo di fuori, il popolo dei pagani. Sembra per un momento che tu trovi qui un luogo per restare. «Non trovo nessuna colpa in quest’uomo». Ma vieni come sempre inopportuno anche qui, perché disturbi i circoli politici. Vieni opportuno solo per diventare, rinviato ad Erode, pietra rifilata sull’asse del gioco dei poteri. Ma, troppo poco disponibile come taumaturgo, rotoli indietro là da dove sei partito, ed ora il pavimento suscettibile della terra non ti sopporta più. In fuori e in alto. Piagato e martoriato a morte da coloro che non sanno quello che fanno, ingiuriato e bestemmiato da coloro che lo potrebbero e lo dovrebbero sapere, tradito e abbandonato da coloro che non possono non sapere, ora vieni completamente scacciato al di fuori di ogni fuori, e innalzato, come un’ostia sopra la terra che ti rifiuta, issato nel cielo indifferente.

Ma neanche il Padre ti vuole più. Egli ha tanto amato il mondo che ti ha dato via per la sua salvezza. Egli ti ha venduto per esso, non può più averti, parola d’onore! Tu stesso devi vedere come verrai ridotto per il mondo. Quello che si è sbarazzato di te. Il mondo è tondo e si muove. Tu stai appeso fuori di esso e non hai con esso parte. E così sei il suo re. E tutti noi pieghiamo il ginocchio e gridiamo: «Salve, re dei giudei!», e ciò che volevamo dire è: «Crocifiggi, crocifiggi!» perché sei venuto a nausea a tutti noi, sei diventato per tutti noi un peso insopportabile, togliti di mezzo e va’avanti con l’opera della tua redenzione, a cui ti sei dedicato. Crocifiggetelo, affinché siamo redenti da lui! Crocifiggetelo affinché siamo redenti per mezzo di lui. Togliti di mezzo! Tolle. Crucifige.

[1] Il libro è stato scritto prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, quando il sacerdote celebrava la messa dando le spalle ai fedeli. (ndr)

Hans Urs Von Balthasar

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