Lo afferma in una nota ufficiale don Gianmatteo Caputo, responsabile patriarcale per l'arte sacra...
«Non confondere i piani e uscire dall'ambiguità, l'attuale situazione è frutto di forzatura e strumentalizzazione». Lo afferma in una nota ufficiale don Gianmatteo Caputo, architetto e delegato per i beni culturali ecclesiastici del Patriarcato di Venezia, che interviene per fare chiarezza nella vicenda della chiesa veneziana di Santa Maria della Misericordia «adattata a moschea» nel corso della Biennale. «Nella vicenda – scrive Caputo – si sono confusi e superficialmente mescolati due piani e ambiti che invece sono – e devono restare – ben distinti per la loro serietà e complessità: la questione relativa all'installazione artistica del padiglione islandese della Biennale d'Arte e la richiesta di realizzare una moschea nella città di Venezia».
Il responsabile patriarcale per l’arte sacra ricorda che «la richiesta avanzata dall'artista (Christoph Buchel, ndr) al Patriarcato, all'inizio dell'anno, di ottenere la concessione di una chiesa per la sua "idea" artistica, aveva ricevuto una prudente risposta negativa. Era, infatti, evidente quanto fossero delicate le implicazioni di una simile installazione che mirava a riprodurre una vera e propria moschea all'interno di una chiesa» sebbene non più usata per finalità di culto.
Caputo si pone una domanda radicale: «Innanzi tutto perché in una chiesa? Non mancano a Venezia spazi architettonici in disuso, che non avrebbero urtato la sensibilità di alcuni ed avrebbero aperto a un maggior desiderio di integrazione. Già nel mese di febbraio si era sottolineato che, per rispetto profondo verso i credenti, verso la città e tutti i soggetti interessati, bisognava tenere in considerazione (e non tralasciare) il fatto che un'installazione del genere avrebbe avuto implicazioni culturali, religiose e di vita pubblica che non avrebbero potuto essere risolte solo nel rapporto fra chi dispone di uno spazio e i realizzatori della proposta artistica. Era necessario un più ampio e reale coinvolgimento della città ed in particolare delle comunità religiose interessate».
Ma «era stata espressamente richiesta una chiesa», e il Patriarcato aveva «indicato anche che un simile spazio, per il suo alto valore simbolico e artistico, non era adeguato alle finalità della richiesta. Si suggeriva inoltre, visto il valore principalmente "architettonico" dell'intervento artistico, volto al riuso di un ambiente preesistente in città, di rinviare la realizzazione del progetto alla Biennale di Architettura, per discutere il problema del riuso urbano di parti della città, in modo d'avere anche il tempo di valutare ogni aspetto coinvolgendo tutti i soggetti interessati, nonché per condividerne le finalità artistiche».
Ma don Caputo ricorda un altro importante aspetto sinora taciuto nelle cronache sulle polemiche suscitate dall’installazione: «Nessun membro della comunità musulmana è stato coinvolto dall'artista nei contatti con il Patriarcato per tale proposta espositiva e anche questo aspetto è risultato non positivo e non opportuno, soprattutto dopo che la Diocesi aveva richiesto il coinvolgimento di tutti i protagonisti, compresa la Biennale, la Soprintendenza, il Comune, il Paese espositore, soggetti che si ritrovano in conferenza di servizi prima dell'avvio della Biennale anche per aspetti meno rilevanti di questo».
Per questi motivi «la realizzazione finale – ora sotto i nostri occhi – appare quindi come una grande forzatura ed una sostanziale strumentalizzazione di tutti i soggetti coinvolti, compresa in primo luogo la comunità musulmana che, pur partendo da una richiesta legittima, si vede così offerto un luogo che viene occupato in modo non regolare, per finalità "seconde", ovvero artistiche, e aggirando di fatto questioni che, invece, sono serie e rilevanti». Affrontare nodi di tale rilievo esige «un approccio serio e partecipato da tutti, nel dialogo delle comunità religiose interessate e, più in generale, dell'intera comunità cittadina. La richiesta di una moschea in città, insomma, è questione importante e che va affrontata, ma con metodi e modi ben diversi e più fondati. Nel rispetto autentico di tutti».
Il rappresentante del Patriarcato chiarisce che non vuole polemizzare con nessuno ma cerca solo «di uscire dall'ambiguità, che pone tutti in atteggiamento di sospetto o peggio di pre-giudizio, per giungere finalmente a un'oggettiva e leale chiarezza». Amaramente don Caputo nota che «nel frattempo l'intento polemico e provocatorio dell'artista è stato raggiunto e quindi anche lui si porta a casa – come succede tante volte in questa città – il suo "guadagno" di fama ottenuto utilizzando (meglio sarebbe dire: sfruttando) Venezia come una vetrina, senza curarsi troppo del rispetto delle regole, delle leggi ma soprattutto della sua storia e dei suoi abitanti, lasciando uno strascico di polemiche inutili dalle quali la città – già di per sé fragile e sensibile – rimane sempre più indebolita». È chiaro invece che «bisogna uscire decisamente dalla provocazione artistica, che ormai non è più solo tale, e cominciare ad affrontare le questioni serie nella loro singolarità e nella chiara distinzione dei piani».
Ecco quindi l’appello alla «comunità musulmana, che sicuramente desidera essere partecipe e attiva nella vita della città», perché «prenda le distanze da questa provocazione rilanciando la richiesta di un suo spazio per la preghiera che sia adeguato, dignitoso e riconosciuto da tutta intera la comunità civile». Un simile passo «ci troverebbe interlocutori attenti e sensibili, a favore di una soluzione condivisa, senza incomprensioni e senza ferite nei confronti di alcuna comunità religiosa».
Redazione Avvenire
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