Sotto al primo sole di marzo i detenuti dell'Ospedale psichiatrico giudiziario passeggiano adagio su e giù per i cortili. Sono colpevoli di reati commessi in stato di infermità mentale e tuttora ritenuti socialmente pericolosi.
Sotto al primo sole di marzo i detenuti dell’Ospedale psichiatrico giudiziario passeggiano adagio su e giù per i cortili. Sono 206 uomini, oltre a 98 donne, colpevoli di reati commessi in stato di infermità mentale, e tuttora ritenuti socialmente pericolosi. Quando passano i medici tanti di loro si avvicinano, ansiosi di sapere: «Dottore, e la mia perizia? Quando potrò uscire?».
«Quando», per molti è una data assolutamente incerta. Di sei mesi in sei mesi la "pericolosità sociale" può essere prorogata, senza un termine. È l’aberrazione degli Opg italiani, come un limbo in cui si entra, ma spesso non si sa quando si esce. Per uno schiaffo a un vigile c’è stato chi si è fatto quindici anni. «Mi hanno dato una stecca», cioè una proroga, dicono fra di loro i detenuti: e sono altri sei mesi.
Adesso, la proroga l’hanno avuta gli Opg, che sulla carta oggi dovevano chiudere. Niente da fare, le nuove comunità che dovrebbero accogliere questi detenuti hanno già la loro sigla per nome, "Rems", ma nelle Regioni non esistono ancora. Tutto, dunque, come prima.
Il ragazzo che ci si avvicina per primo ha lasciato moglie e due bambini in Ghana, è sbarcato a Lampedusa, si è trovato in una zuffa, era agitato, è arrivato qui. Un sorriso di denti candidi sulla faccia nerissima: «Tornare a casa», domanda solo, gentilmente. Certo, tutti i reclusi qui sono sotto psicofarmaci, e al mattino si incolonnano in infermeria per la loro manciata di pillole. Non sempre basta a calmare la malattia. Un detenuto sui 60 anni con una giacca sdrucita, la barba lunga, ci si fa incontro e balbetta che è un appassionato di musica e astronomia, che nel 2000 ha lasciato aperto il gas in casa, è vero, «ma non si è fatto male nessuno», «vi prego, io non dico bugie, fatemi tornare a casa». E quest’uomo quasi vecchio che domanda come un bambino, stringe il cuore. Già dopo dieci passi l’Opg ti si palesa come un luogo di sofferenza in cui non vorresti mai lasciare chi ti è caro.
«La maggior parte degli detenuti maschi qui – dice lo psichiatra Cesare Maria Cornaggia, che ci accompagna – è colpevole di reati minori. I casi di crimini gravi non sono più di una ventina». Ti colpisce come questi uomini si avvicinano e ti raccontano la loro storia, quasi anime di un dimesso purgatorio. Eppure Castiglione è un Opg privilegiato, dipendente com’è dal Servizio sanitario nazionale e non dall’Amministrazione penitenziaria. Non ci sono sbarre, non ci sono secondini. C’è invece un Centro socio riabilitativo dove i detenuti lavorano, anche in collaborazione con un’azienda esterna. Ci sono una tipografia, una sartoria, la redazione di un giornale, un atelier di pittura. Qui i detenuti hanno fabbricato con la cartapesta dei pianeti Terra, come li desidererebbero. Molti hanno disegnato mondi di oceani e pesci, di foreste e di tigri, ma senza alcuna traccia di uomini.
I padiglioni maschili sono vecchiotti e sovraffollati, ma puliti e luminosi. Di giorno non ci si può isolare in camera: chi non lavora se ne sta in un angolo, o guarda distrattamente la tv. Qui aspettano, aspettano. Che la "stecca" scada. Che, forse, ne arrivi un’altra. La maggior parte dei detenuti sembra gente di condizioni sociali modeste, le tute di nylon da ipermercato indossate come una divisa di povertà. Chi ha un buon avvocato probabilmente non arriva qui, oppure se ne va in fretta. Il limbo della reclusione sine die, sembra solo per gli ultimi.
Ma dei quattro reparti quello che ti colpisce di più è l’Arcobaleno. Donne, quasi cento donne provenienti da tutta Italia. Una buona parte di loro ha commesso reati gravi. Anche omicidi, infanticidi. Sono le donne, ti dici entrando, che stanno dietro la cronaca nera dei giornali. Le madri fino a quel giorno amorose, le mogli tranquille che una sera d’improvviso trasfigurano.
Un gruppo sta uscendo per andare in gita a un centro commerciale. Si sono vestite eleganti. Ma, in alcune, gli sguardi spenti dicono quanto interiormente siano lontane, tenacemente tenute avvinte dai ricordi. Nell’ala della Infermeria ci sono le più gravi, sorvegliate da vicino. Ne intravedi un paio, sedute a un tavolo, immobili come sfingi. Nell’altra ala invece le camere, piene di peluches e poster, ti fanno pensare a un collegio di ragazzine. Quei pupazzi, quelle foto sul comodino affermano una strenua nostalgia di vita, di affetto, di casa.
Anche qui molte, non tutte, ci si affollano intorno. U., rumena, gentile, sorridente, ha quasi finito la pena. La guardi e fatichi a immaginarla che picchia a sangue l’anziano datore di lavoro, che non la pagava. «Ma ora mi sono curata», dice; e nella lavanderia del reparto stende il bucato, laboriosa come una brava casalinga. A. è romana, ex tossicomane, gli occhi scuri belli e induriti: «Ho trent’anni, vorrei una chance, una ancora». Un’altra, vecchia, racconta: «Oggi sento ancora le voci. Mi dicono di fare del male, mi dicono: ti odiano tutti». Ci guarda e tace una ragazzina con gli occhi verdi, giovanissima, incinta. Ma chi più ti resta nella memoria è una donna anziana, vistosamente truccata, le labbra scarlatte, che assorta davanti a uno specchio si pettina con cura i capelli bianchi, completamente indifferente al mondo attorno.
Tra quelle che non si avvicinano ci sono, anche, le madri che hanno ucciso il loro bambino. Fanno, spiega una giovane psichiatra, un percorso di ricostruzione della loro storia, per poter capire e perdonarsi. Andranno anche sulla tomba del figlio. Per piangere, per dare concretezza almeno ai loro intollerabili fantasmi.
Confessa la detenuta Maria sul giornale dell’Opg: «Adesso per andare avanti, ogni mattina, indosso una maschera, per uscire da quello spettro di colpa che mi perseguita». Scrive un’altra: «Puoi lasciare dietro di te le maree più forti e disastrose, vincendo alla fine la tua battaglia contro il male». Una terza scrive che incontrare Dio «è come innamorarsi». «Il desiderio di Dio, e di un Dio che è comunque buono, è molto forte fra i detenuti», dice il professor Cornaggia.
Chissà, ti domandi, in quante riescono, uscite di qui, a vivere ancora. Chissà cosa sognano, in queste stanze, di notte, le donne, quando le luci si spengono. M., una ragazza dell’Est arrivata in Italia da bambina, è una bionda esuberante. Abbandonata, affidata a comunità, scappata, picchiata, ha vissuto di espedienti. Con i suoi begli occhi chiari anche lei domanda: «Vorrei una possibilità, una ancora»... E però quelle che non dimenticherai sono le altre, quelle che non si avvicinano, e i loro sguardi; come di chi, troppo a lungo nel buio, non osi sperare di rivedere la luce.
Marina Corradi
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