Ch'io abbia scelto l'ultimo posto come impegno vocazionale non significa proprio nulla: ciò che conta è sfrorzarmi di restar a quel posto, ogni giorno della mia vita.
Ch'io abbia scelto l'ultimo posto come impegno vocazionale non significa proprio nulla: ciò che conta è sfrorzarmi di restar a quel posto, ogni giorno della mia vita. E questo è terribilmente difficile! C'è nel fondo del cuore umano un bubbone che cresce con l'andar degli anni: è il bubbone del vittimismo. Nessuno è esente da questo male; e solo molto tardi l'anima riesce ad individuarlo e, Dio voglia, ad estirparlo! Il vittimismo è l'attegiamento classico dell'uomo rimasto al Vecchio Testamento e che invoca nei rapporti col prossimo la sola giustizia. Guardiamo una famiglia qualunque. Sovente il peso della fatica è mal distribuito e grava in particolare su qualcuno dei membri; il più sovente sulla madre. Per anni ed anni le spalle che portano quel peso si piegano allo sforzo; e, per quel sacrificio, il resto della piccola compagine riesce a marciare in pace. Ma eccoti che sotto quelle spalle c'è un cuore; e in quel cuore, poco alla volta, il bubbone del vittimismo si sviluppa, cresce nelle lunghe, silenziose personali miditazioni. Un giorno, un brutto giorno, o a causa di uno sforzo maggiore o per effetto di un colpo di spillo in profondo, il bubbone scoppia e spande nel corpo il suo sottile veleno! - Basta, ora basta! Ho fatto finora la vostra serva, e non ve ne siete nemmeno accorti. Ho sacrificato la mia vita, mentre voi vi siete divertiti... ecc., ecc. Quando le stesse cose capitano - e capitano - in una comunità religiosa o in un'associazione di pie persone, la tempesta è molto più grande; e sovente gli stessi muri dell'edificio corrono il pericolo di cadere sfasciati. È il momento dello scandalo; e il veleno diffuso è così forte che ha il potere di paralizzare la stessa carità. Eppure dobbiamo dire che quella madre ha ragione. Sul filo della giustizia, dobbiamo ammettere che essa si è sacrificata per i suoi cari. Gli altri si sono concessi molte libertà; ella no: ha lavorato, accumulato, difeso, potenziato. C'è poi una cosa più grave, quella che veramente fa soffrire: non è stata capita: si è passati accanto al suo sacrificio senza tenerne conto, ecc., ecc. Ognuno di noi, a questo punto, può raccontare la sua storia; e - caso strano - ognuno di noi si sente sull'esatta posizione di quella madre, ognuno di noi si sente vittima di qualcuno o di qualcosa. Chi ha avuto una infanzia senza affetti, chi è stato mal ricompensato dall'ufficio, chi non è stato giustamente valutato nel passaggio di categoria, chi non è diventato ministro, chi è stato arrestato innocente, chi sente d'esser diventato tisico per lo starnuto di un vicino, chi non è stato capitto dal Vescovo, chi è stato obbligato a dare le dimissioni da presidente e chi è stato mandato in cucina invece di essere nominato superiore del convento. Ma il caso più strano è che ciascuno di noi ha ragione e che ciò che ho detto è vero. È difficile che nella lunga vita di un uomo, data la giungla in cui si è piombati, non si riceva da qualcuno uno sgarbo, un torto, una zampata o magari un colpo di rivoltella. Allora, sotto il peso di questo torto o stesi sul letto per il male che altri ci hanno procurato, incominciamo a gustare la delizia del vittimismo. È un dolore insopportabile; ed è tanto più insopportabile in quanto non colpisce una parte di noi stessi, ma tutto il nostro essere fino nelle radici più profonde, fino ai rapporti con Dio, fino ai rapporti col prossimo. Come posso amare, veramente amare il fratello che vive ogni giorno alle spalle della mia fatica e mi ripaga con la sua indifferenza e sovente col disprezzo? Come mi posso sentire a mio agio in un convento dove i miei simili non han tenuto conto della mia vera identità e non han capito i miei meriti? Come posso lavorare ancora con entusiasmo in un'impresa che ha promosso un inetto e relegato me nel nascondimento della monotonia quotidiana? No, non è possibile; e di fatto non amo più, non posso più amare. Ma non amare più, non poter più amare non è cosa da poco, una faccenda che mi lasci indifferente. Amare, piaccia o non piaccia, è il fine della mia vita, è il perché della mia esistenza, è l'unica vera gioia a cui attingere senza mai saziarsi. Difatti, da quando non amo più, la gioia se n'è andata da me, e la stessa pace è in gioico. Nelle notti insonni sento il tarlo roditore che mi distrugge, sento il veleno che sale nei meandri dello spirito e mi paralizza. Provo a pregare; ma la stessa preghiera mi è diventata amara, vuota di senso. Si direbbe che il cielo non mi risponde più. Al mio grido invocante giustizia il silenzio più assoluto ne è l'eco abissale. Si direbbe che qualcosa è cambiato lassù e che gli stessi canoni che reggevano l'antica legge non commuovono più il Dio giusto.
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Sì, è proprio così. Il Dio della giustizia ha voltato per sempre la pagina della giustizia. Era bella, era vera, ma non era completa quella pagina; soprattutto non aveva l'esplosività di Dio. All'uomo finito nel vicolo cieco del peccato i canoni della giustizia e della verità erano incapaci di offrire salvezza. Ci voleva qualche altra cosa; ed era il segreto nascosto nei secoli in Dio. E venne Gesù! E i suoi non lo ricevettero. Non solo, ma lo spinsero fuori della sua dimora, come capro espiatorio, verso il deserto. Tutta l'umanità gli fu addosso per colpire, sputare, odiare. E Gesù, l'unico innocente, il vero innocente, piegò il capo sotto i colpi; non invocò la giustizia e pagò sulle sue carni e nel suo spirito il peccato di tutti. Era da quell'istante e per sempre instaurata la legge del perdono, della misericordia, dell'amore che va al di là della giustizia. Dopo l'episodio del Calvario, la pace sarebbe passata non più nel rasoio della verità o nel tribunale della legge, ma nel cuore squarciato di un Dio che s'era fatto per noi «peccato» in Cristo Gesù. Era finita l'epoca del vittimismo e incominciava, con Gesù, la dinastia della «vittima». La vera vittima, silenziosa vittima, vittima che si paragona all'agnello, vittima che accetta di essere vittima e che distrugge nel fuoco del suo amore gli sterpi dell'ingiustizia. «Dio ama l'ilare donatore» dirà S. Paolo; e la vittima è l'ilare donatore. Dio sarà l'ilare donatore nel suo Cristo; il suo dono sarà irreversibile; perdonerà, e per sempre, tutti i peccati; rifarà la verginità perduta, ridarà vita alle ossa stanche del peccatore, trasformerà una prostituta in Maria Maddalena e un gaudente qualsiasi in S. Francesco. La vita trionferà sulla morte e la primavera troverà forza e bellezza dallo stesso letame della terra. «Io ho vinto il mondo» griderà il Cristo nel suo sacrificio; e la gioia tornerà a fiorire nel nostro cuore angosciato.
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Sì, al di là della giustizia anche per me. Per vincere la cancrena del vittimismo debbo andare al di là di questa aspra montagna. Come Gesù, ad imitazione di Gesù, debbo risalire faticosamente il versante del mio dolore e gettarmi con coraggio nella discesa verso i fratelli, tutti i fratelli, e in primo luogo verso coloro che la miopia dei miei occhi malati vede come causa dei miei mali. Non c'è altra soluzione. È il sine qua non della vera pace e dell'intimità con Gesù. Finché perdo tempo a difendermi, non concludo nulla e resto fuori dal vero cristianesimo, cioè dalla conoscenza profonda del Cuore di Gesù. Non debbo nemmeno più elencare le mie ragioni, perché dinanzi a me troverò sempre un fratello che elencherà le sue; e la dialettica andrà all'infinito. Perdonare, veramente perdonare significa, in fondo, convincersi che il male che ci han fatto ce lo meritavamo. Più ancora: che è bene soffrire in silenzio. Più ancora: che è riservata la beatitudine a coloro che sono perseguitati a causa della giustizia, come insegnò Gesù; e che è stolto perdere la preziosità di simili istanti per un po' di vanità o di orgoglio umano. Che cosa direbbe l'umanità se, seguendo Gesù sul Calvario, lo vedesse improvvisamente voltarsi adirato verso un uomo che gli ha datop un calcio e gridargli: «Sai chi sono io?». No. Gesù non s'è voltato, per difendersi, verso coloro che lo insultavano; non ha gridato i suoi meriti o la sua identità alla folla che lo crocifiggeva; soprattutto non li ha odiati interiormente, pensando che li avrebbe condannati all'inferno quanto prima. La novità dell'amore di Gesù sta tutta qui; ed Egli l'aveva così ben insegnato e Luca così ben raccolto. «Ma a voi che ascoltate dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano. A chi ti percuote su di una guancia, porgi anche l'altra; e a chi ti prende il mantello, non impedire di toglierti la tunica» (Lc 6, 27ss). È inconfondibile lo spirito di Gesù, è talmente unico! E Paolo, che fu senza dubbio il migliore interprete di tale spirito, nel profondo del cuore di Cristo, quando vorrà dare la linea programmatica della posizione del cristiano dinanzi a Dio e al mondo, dirà nella lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi quel sentire che era in Gesù, il quale, sussistendo in natura di Dio, non considerò questa sua uguaglianza con Dio come una rapina, ma vuotò se stesso assumendo la forma di schiavo e, facendosi simile all'uomo, umiliò se stesso fattosi ubbidiente sino al punto di morire su una croce» (Fil 2, 5). Qui sta il sunto di tutte le virtù e di tutte le perfezioni. «Abbiate in voi il sentire di Gesù». Questo «sentire di Gesù», questa sua «sete di abbassarsi» per obbedire al Padre e per salvare l'uomo, resterà per sempre il capolavoro dell'amore del Cristo. Ecco perché non è sufficiente la verità e la giustizia; ecco perché siamo invitati ad andare oltre. Più avremo in noi questa «spinta verso il basso ad imitazione di Gesù», più l'umiltà regnerà nel nostro cuore e la pace inonderà la nostra vita. In fondo, in queste poche righe c'è in gioco la santità dell'uomo sulla terra.
Carlo Carretto
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