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XVII. La notte amica

Quando venni nel Sahara, cinque anni fa, non amavo la notte. Essa era in me troppo legata al modo di vivere europeo, che non è certo il migliore e soprattutto è il meno adatto a farci conservare la calma e i nervi distesi


XVII. La notte amica

Quando venni nel Sahara, cinque anni fa, non amavo la notte. Essa era in me troppo legata al modo di vivere europeo, che non è certo il migliore e soprattutto è il meno adatto a farci conservare la calma e i nervi distesi. Notte significa, per molti, fatica da aggiungere a quella del giorno; per altri dissipazione, per altri ancora insonnia, noia e cose del genere: il tutto sotto la grande insegna estenuante delle luci artificiali. Qui è tutt'altra cosa. La notte è innanzitutto riposo, vero riposo. Al tramontar del sole la natura si placa, si distende come sotto l'azione di un improvviso cenno divino. Il vento che ci ha accompagnato col suo urlo e la sua rabbia quasi tutto il giorno, cessa, il caldo si mitiga, l'atmosfera si fa chiara e tersa, e ovunque si stende una grande pace, come se elementi e uomini volessero rifarsi dopo la gran battaglia del giorno e del sole. Sì, la notte quaggiù è un'altra cosa; non ha perduto la sua verginità, il suo mistero: è rimasta come Dio l'ha fatta, creatura sua, apportatrice di bene e di vita. Finito il lavoro, fermata la carovana, ti stendi sulla sabbia con una coperta sotto il capo e resti così a respirare lungamente e saporosamente la brezza che ha preso il posto di quel nemico, arido e infuocato vento del giorno. Poi ti allontani dall'accampamento e vai sulle dune per la preghiera. Il tempo passa non turbato dalla fretta né dall'orologio. Nessun impegno ti assilla, nessun rumore ti disturba, nessun importuno ti attende; il tempo è tutto tuo. Ti sazi così di preghiera e di silenzio mentre nel cielo si accendono le stelle. Chi non ha visto non può credere ciò che sono le stelle per il deserto! Sarà anche la mancanza assoluta di luci artificiali e la vastità immensa dell'orizzonte ad aumentarne il numero e il fulgore: è certo che è uno spettacolo impressionante.   Solo il fuocherello dell'accampamento sul quale bolle l'acqua per il the e sotto il quale cuoce il pane per la cena s'inquadra con una luce discreta e guizzante in tutto quello scintillio di cielo. Mi sono bastate le prime notti vissute quaggiù per chiedere d'urgenza libri di astronomia e carte del cielo; e per mesi e mesi ho occupato il mio tempo libero a rendermi un tantino conto di ciò che mi transitava sul capo lassù, nelle profondità abissali del cosmo.

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Tutto fu elemento di gioia e materia per la mia preghiera d'adorazione. Inginocchiato sulla sabbia ho sprofondato per ore e ore gli occhi in quelle meraviglie, segnando come un fanciullo le nuove scoperte sul taccuino. Ho capito ad esempio, che l'orientamento nel deserto, è molto più facile la notte che il giorno, che i punti di riferimento sono infinitamente più numerosi e sicuri. In cinque anni, di cui quattro in pieno deserto, per motivo di lavoro, non mi sono mai smarrito, grazie alle stelle. Quante volte alla ricerca di un accampamento Tuareg o di una stazione meteorologica sperduta, la luce del giorno, il vento di sabbia, il sole troppo alto mi facevano smarrire la pista. Ebbene: attendevo la notte, e la strada perduta era ritrovata sull'orientamento preciso delle stelle. La notte Sahariana, con suo firmamento, non è solo un fantastico quadrante di orientamento, ma è anche una dimora riposante per l'anima. Dopo la giornata - con tutta quella luce - l'anima è ridotta a una casa con finestre senza gelosie, scardinate dal vento o bruciate dal sole. Ma la notte! A poco a poco le finestre dell'anima sono di nuovo sistemate, rinchiuse; megli, socchiuse dal buio; e gli occhi spalancati attraverso quelle fessure possono, senza sforzo e tensione, fissere pacatamente le cose attorno. No; non dimenticherò mai le notti sotto le stelle del Sahara. Mi sento un punto fasciato dal buio amico trapuntato di stelle. Sì; un buio amico, una oscurità affettuosa, tenebre riposanti, necessarie, vitali. In esse la mia attività interiore non viene mortificata, ridotta; ma, al contrario, può distendersi, realizzarsi, accrescersi, gioire.   Mi sento come in casa, al sicuro, senza paura, fasciato da questa fedeltà amorosa della notte amica, desideroso solo di restare così per ore e ore, preoccupato solo della sua brevità e avido di leggere inme e fuori di me quei caratteri e quei simboli di un linguagio divino.

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La notte amica è un'immagine della fede, cioè di quel dono di Dio definito da San Paolo «Realtà delle cose sperate e convincimento delle cose che non si vedono» (Ebr 11, 1).   Mai ho trovato un paragone più adeguato al mio rapporto con l'Eterno: un punto perduto nello spazio infinito, avvolto dalla notte fonda sotto la luce discreta delle stell. Questo punto sperduto nello spazio sono io; il buio necessario, amico insostituibile, la fede; le stelle, la testimonianza di Dio. Quando la mia fede era debole, non provata dallo sforzo né dall'esperienza religiosa, mi poteva apparire incomprensibile, quasi paurosa come la notte per il bimbo. Ma ora che l'ho conquistata, che è mia, provo gioia a vivere in essa, a navigare in essa come sul mare; non la sento più nemica, non mi fa più paura; anzi, mi dà gioia, proprio per la sua oscurità e trascendenza divina. A volte amo perfino chiudere gli occhi per vedere più buio. Tanto, lo so che le stelle sono là, al loro posto, al giusto posto a testimoniarmi il cielo; ed io per poco tempo posso gustare il perché sia necessario il buio. Necessario il buio, necessaria l'oscurità della fede per non essere feriti dalla troppa luce di Dio. Per la mia natura d'uomo, non c'è altra possibilità e comprendo sempre più che la fede non è una misteriosa e crudele astuzia di un Dio che si nasconde senza dirmi il perché, ma è un velo necessario e insostituibile perché la mia scoperta di Lui avvenga gradualmente rispettando le tappe dello sviluppo della vita divina in me. «Nessuno può vedere Dio senza morire» dice la Scrittura nel senso che il vederlo faccia a faccia è solo una possibilità per coloro che sono passati attraverso lo stadio della morte. Per lo stadio terreno - che è il primo - tale è la luce, tale l'infinitezza del mistero e tale è l'inadeguatezza della natura umana, che debbo penetrarlo poco alla volta. Prima attraverso i simboli, poi nell'esperienza, poi nella contemplazione che mi può essere anticipata su questa terra se resto fedele all'amore di Dio. Ma sarà solo un inizio, un abituare gli occhi dell'anima a sopportare tanta luce; ma il processo continuerà senza fine; e sempre rimarrà il mistero tanto ci sovrasta l'infinitezza di Dio. In fondo, che cos'è la nostra vita quaggiù se non lo scoprire, il prendere coscienza, il penetrare, il contemplare, l'accettare, l'amare questo mistero di Dio, unica realtà che ci circonda e nella quale siamo immersi come meteoriti nel cosmo senza fine? «In Deo vivimus movemur et sumus!» (Atti 17, 28). Non ci sono molti misteri; ce n'è uno solo da cui tutto dipende e da cui non si può sfuggire, ma è talmente immenso da riempire tutto lo spazio. Le scoperte umane non spostano di un dito il problema: i millenni che passeranno non scriveranno nulla di più di ciò che diceva già Isaia con la sua potente espresione sul «Deus absconditus» e Dio stesso dichiarava a Mosè in adorazione dinanzi al roveto ardente: «Ego sum qui sum» (Es 3, 14). Forse il cielo era meno oscuro per Abramo e per gli uomini della tenda che per l'uomo moderno; e la fede era più facile per i poeti medioevali che per i tecnici di oggi; ma la situazione è la stessa e il rapporto con Dio è identico. Capita forse all'umanità intera ciò che capita all'uomo singolo, al quale, più avanza verso la maturità, più è richiesta una fede nuda di sentimento e spoglia di poesia. Ma la via rimane la stessa fino all'ultimo uomo che nascerà su questa terra. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la fede» (1Gv 5,4). Dio chiede all'uomo un atto di confidenza in Lui; e questo atto è la vera, l'autentica sottomissione della creatura al Creatore, un atto di umiltà, d'amore. Questo «confidare in Dio», questo «far credito all'Onnipotente», questo appagare la nostra sete di sapere nell'infinito mare della sua paternità, questo accettare il suo misterioso piano, questo entrare alla scuola per ascoltare la sua Parola, questo «saper attendere» è l'atto di adorazione degno dell'uomo su questa terra. Ma se per orgoglio non vogliamo metterci sul sentiero della fede e voltiamo le spalle alla realtà divina e chiudiamo gli occhi dinanzi alla testimonianza delle stelle, che cosa risolviamo noi? Aumenta forse la nostra conoscenza del mistero? Troviamo altrove più luce alla nostra notte? In fondo che cosa sappiamo noi? Senza giungere a parlare di Dio e della Incarnazione del Verbo e dell'Eucaristia, che cosa sappiamo noi dello stesso mondo fisico che ci circonda? Di ciò che capita dopo la nostra morte? Del dolore degli animali e del destino delle cose? Di ciò che capita su Andromeda e di ciò che avviene alla gazzella che muore? Ciò che sappiamo è poco più di nulla; e quel poco che sappiamo è tutto instabile e relativo, se non veniamo a scoprire le cause prime. Un senso di sgomento dovrebbe coglierci ad ogni scoperta, che è là per dirci: «Solo oggi arrivi?». Come rimane vera e preziosa la raccomandazione di Gesù: «Se non vi farete piccoli... non entrerete...».

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Ciò che ho cercato di dire sulla fede vale per tutti; nessuno può sfuggire a questa realtà che è un dono di Dio, ma che ha bisogno, per realizzarsi, del nostro sforzo. Dio ci dà la barca e i remi, ma poi ci dice: «tocca a te remare». Fare «atti positivi di fede» è come allenare questa facoltà; e l'allenamento sviluppa la facoltà come la ginnastica il muscolo.   Davide sviluppò la sua fede accettando di battersi con Golia, Gedeone si esercitò nella fede non solo domamdando al Signore la prova del vello sotto la rugiada della notte, ma andando alla battaglia con pochi soldati contro un nemico più forte. Abramo diventò un gigante della fede accettando fino all'estremo limite il buio di una obbedienza che gli chiedeva il sacrificio del figlio. S. Paolo dirà nella lettera agli Ebrei: «Nella fede i nostri Padri ricevettero buona testimonianza» e continua «per la fede molti furono messi alla tortura, non accettando la liberazione per ottenere una risurrezione migliore; altri ebbero a provare scherni e sferze e anche ceppi e prigione; furono lapidati, sottoposti a dure prove, segati; morirono di spada, andarono in giro in pelle di capra, mancanti in tutto, perseguitati, maltrattati. Di essi non era degno il mondo e andarono errando per i deserti e i monti e le caverne e le spelonche e le grotte della terra» (Eb 11,2ss). Ma su tutti gli uomini e tutte le donne, che vissero di fede, due creature giganteggiano, raggiungendo una maturità quasi sovrumana. Esse sono poste sullo spartiacque del Vecchio e del Nuovo Testamento e chiamate da Dio ad una vocazione talmente unica e grandiosa che fa restare il cielo in sospeso ad attendere la loro risposta: Maria e Giuseppe. Maria deve divenire la Madre del Verbo, deve dare carne e ossa al Figlio di Dio; e Giuseppe deve velare il mistero mettendosi accanto a Lei, per far credere a tutti che Gesù sia suo figlio.   Per queste due creature la notte della fede non fu solo buia; fu dolorosa. Un giorno Giuseppe, fidanzato a Maria, s'accorge che Ella deve dare alla luce un figlio e sa che quel figlio non è suo. Ci sono parole capaci di convincere un fidanzato che il mistero di quella nascita è dovuto nientemeno che alla paternità di Dio? Nessun ragionamento poteva dar pace e serenità a Giuseppe. Solo la fede; ma essa era così buia da obbligare l'anima ad altezze vertiginose. E sarà proprio questa fede nuda e dolorosa a sostenere questo gigante, a metterlo accanto alla Madre di Dio, ad accompagnarla nel suo destino, a partecipare in pieno alla sua missione. Oh, non sarà facile mettersi sulla scia d'un uomo destinato a soffrire e sposo di una donna che sarà chiamata madre dei dolori. Il Bimbo è nato. Qualche Angelo è venuto, sì, a fugare un po' di tutto quel buio; ma subito il cielo si richiude su un buio più grande ancora; i bimbi d'un intero villaggio sono trucidati a causa del loro bimbo; e Giuseppe e Maria, fuggendo, sentono il pianto e l'ululato dele donne di Betlemme. Perché? Perché l'Onnipotente tace? Perché non uccide Erode? No; bisogna vivere di fede. Fuggire in Egitto, divenire esuli e profughi, lasciar trionfare la crudeltà e l'ingiustizia. E così fino alla fine. Dio non ha facilitato la via a coloro che ha messo accanto a Suo Figlio; ha chiesto loro una fede così pura e così tagliente che solo due anime d'una umiltà così abissale potevano sostenere. Quale avventura vivere per trent'anni in una casa dove vive Dio nelle carni d'un uomo terreno, mangiare con Lui, sentirlo parlare, vederlo dormire, scorgere sul suo volto il sudore e sulle mani i calli della fatica! E il tutto con semplicità, come cosa normale, di ogni giorno: così normale da perderlo in un pellegrinaggio, come può capitare ad ogni altra famiglia; così normale che nessuno, nessuno svelerà il mistero, nessuno s'accorgerà che il figlio del fabbro era il figlio di Dio, il Verbo fatto carne, il nuovo Adamo, il Cielo in terra. Dio mio, quale grandezza di fede! Maria, Giuseppe, voi siete davvero e per sempre i maestri della fede, gli esemplari perfetti a cui ispirare le nostre azioni, correggere la nostra rotta, sorreggere la nostra debolezza. Come allora accanto a Gesù, siate ancora accanto a noi per accompagnarci verso l'Eterno, per insegnarci ad essere piccoli e poveri nel nostro lavoro, pazienti nell'esilio, umili e nascosti nella vita, coraggiosi nelle prove, fedeli nella preghiera, ardenti nell'amore. E quando verrà l'ora della nostra morte, cioè spunterà l'aurora sulla nostra notte amica, possano i nostri occhi, fissando il cielo, scorgere la stessa stella che fu sul vostro cielo quando Gesù venne su questa terra.

Carlo Carretto

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