Il malato costa caro. Per questo il fondatore di Exit International riflette sull'impatto della dolce morte per i conti dello Stato: «Quanti presidi rurali possono essere creati nelle comunità aborigene?».
L’eutanasia è una misura economica, e non soltanto una pratica per mettere fine alle sofferenze di un individuo. Lo sostiene Philip Nitschke, australiano, medico, fondatore di Exit International, organizzazione no profit che dal ’97 promuove la dolce morte e il suicidio assistito in tutto il mondo. Il medico è candidato col partito VEP (Voluntary Euthanasia Party) al Senato australiano in vista delle prossime elezioni e, in un articolo apparso nei giorni scorsi sul Canberra Times, non si fa problemi a tracciare un percorso dove l’Australia possa fare ancora da battistrada, come accadde nel 1995 «quando il Territorio del Nord fu il primo posto nel mondo a rendere legale il diritto di un paziente a chiedere un’iniezione letale volontaria e legale».
I COSTI DELL’ANZIANITÀ
Qui ci sono le difficoltà economiche di uno Stato, che riceverebbe notevoli vantaggi dall’introduzione di misure eutanasiche mirate. «Per il tempo in cui la comunità ha discusso il nostro diritto a morire, c’è un altro filo parallelo del dibattito che merita fortemente di essere considerato. Infatti è un tema tanto controverso che non si è mai osato chiamarlo col suo nome. Questo argomento è il consistente (e crescente) costo economico di mantenere in vita contro il loro volere gli anziani e i malati gravi».
Il medico si chiede cosa può succedere se si provasse a traslare l’eutanasia volontaria in termini economici, tema che da tempo sta dominando il dibattito politico in Australia. A sostegno della sua tesi, riporta alcuni dati, a partire da quanto calcolato dieci anni fa dall’Australian Institute of Health and Welfare: circa il 30 per cento delle spese mediche per gli “over 65” sono andate in fumo nell’ultimo anno di vita degli stessi.
«INDIVIDUI FRAGILI CON BISOGNI PESANTI»
In Canada invece si calcola che il 21,3 per cento del budget sanitario è succhiato da un misero 1,1 per cento della popolazione. Tra le spese destinate poi agli “over 85” il 48 per cento finisce in cure ospedaliere: «L’alto costo della morte – dice Nitschke citando l’autore dello studio – deriva da “fragili individui con pesanti bisogni e per un periodo esteso”. Gente come mia madre, intrappolata in una casa di riposo».
Il progetto di Nitschke, bontà sua, non vuole affatto di costringere i malati a morire contro la propria volontà, ma semplicemente considerare la questione anche in questi termini, «specialmente se centinaia di migliaia, se non milioni di dollari del budget sanitario possono essere risparmiati o re-indirizzati. Quanti presidi rurali nelle comunità aborigene possono essere creati con questo risparmio?»
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