Lo racconta Rosaria Cascio, assieme a Salvo Ognibene, nel volume "Il primo martire di mafia. L'eredità di padre Pino Puglisi"...
del 23 marzo 2017
Lo racconta Rosaria Cascio, assieme a Salvo Ognibene, nel volume "Il primo martire di mafia. L’eredità di padre Pino Puglisi"...
«Ma quale prete antimafia? Era un uomo che sapeva ascoltare. E così cambiava la vita alle persone che incontrava». Non è da tutti poter dire di essere stati amico di un santo, ancora meno averlo avuto come padre spirituale. Per Rosaria Cascio, però, classe 1965, il beato padre Pino Puglisi è stato professore, guida, amico, maestro di vita. Il sacerdote riconosciuto martire “in odium fidei” e che il mondo conosce per essere stato ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993 nel giorno del suo 56° compleanno, per quella ragazza diventata poi insegnante di Lettere è stato un compagno di strada insostituibile.
TRA I BANCHI DI SCUOLA
Rosaria lo ricorda bene quel giorno di settembre del 1978, quando don Pino entrò nell’aula affollata di studenti del liceo classico Vittorio Emanuele II, accanto alla cattedrale di Palermo, e la illuminò col suo sorriso. «Era il mio professore di religione e in quella classe non si sentiva volare una mosca. Con padre Puglisi si studiava la Bibbia», racconta, «e nell’anno del mio quarto ginnasio scelse il Vangelo di San Luca: durante le sue lezioni si affrontavano i temi della nostra adolescenza, guardandoli attraverso il Vangelo. Aveva una grande capacità di coinvolgerci. Era stato parroco nel paesino di Godrano e stava cominciando l’esperienza del Centro diocesano vocazioni. Alla fine dell’anno, cominciò a proporre i campi-scuola giovanili. Coinvolse anche me. Fu il primo di una lunga serie di altri campi con lui, per quattordici anni».
Ad avere inciso nella vita di Rosaria e di tantissimi altri giovani come lei è il “metodo” di don Pino, che puntava alla crescita e alla maturazione dell’uomo in tutta la sua interezza. Un’opera formativa che diventò la sua “condanna a morte” in un territorio difficile come il quartiere Brancaccio, governato da Cosa nostra. Lo racconta bene Rosaria Cascio, assieme a Salvo Ognibene, nel volume Il primo martire di mafia. L’eredità di padre Pino Puglisi, edito dalle Dehoniane. Negli anni Settanta e Ottanta, padre Puglisi porta il vento del Concilio vaticano II in campo vocazionale.
IL PRETE DELL’ASCOLTO
«Con me non ha mai parlato di mafia», testimonia la sua allieva, oggi insegnante al liceo Regina Margherita di Palermo, «ma dentro porto gli anticorpi, imposto la mia vita secondo valori che sono quelli della cittadinanza. Puglisi otteneva risultati in due modi: parlare poco e testimoniare molto; aiutare a scoprire il senso della vita». Un percorso di crescita interiore che prevedeva tre tappe: “chi sono io”; “sei unico in questo mondo e il mondo ha bisogno di te”; “sì, ma verso dove?”, per trovare la propria vocazione. «Per scoprire a cosa eravamo chiamati, abbiamo svolto servizi reciproci durante i campi-scuola, come cucinare, pulire i bagni», ricorda con un sorriso. «Poi ci ha portato nella comunità di Godrano a svolgere un servizio spirituale. E, quando avevamo 18 anni e dovevamo decidere cosa fare nella nostra vita, ci ha regalato l’esperienza più forte: una settimana in una casa Fatebenefratelli per malati di mente a Genzano di Roma. Da lì uscirono tre vocazioni al servizio medico, io maturai la scelta di impegnarmi nel volontariato, due fidanzati un po’ più grandi pensarono di sposarsi e dedicare la vita agli altri».
Accompagnare i ragazzi a scoprire il senso della vita – nella sua formazione c’è lo psicoterapeuta Viktor Frankl – attraverso l’ascolto empatico e attivo di Carl Rogers è il suo percorso pedagogico. «Ricordo i libri, tantissimi libri, a terra, ovunque, tutti segnati», conferma Rosaria Cascio. «Mai, quando andavi a porre un problema, ti dava una risposta: o ti regalava un libro oppure ti ascoltava a lungo. Per questo le confessioni o i colloqui con lui duravano tantissimo. Alla fine la fronte si allargava e insieme recitavamo il Padre nostro».
Il prete dell’ascolto, apparentemente innocuo, riuscì a innescare a Brancaccio una rivoluzione così radicale da spingere Cosa nostra ad ammazzarlo. Don Rosario Giuè in quel quartiere prima di lui aveva lavorato bene, cattolici e comunisti operavano fianco a fianco per il riscatto del territorio. «Puglisi ha trovato un terreno fertile. Ma per l’esperienza che aveva alle spalle è stato visto come un normalizzatore. Lui era un animatore vocazionale e sul territorio ripropose la stessa metodologia applicata ai giovani in precedenza. Le missioni popolari, l’ascolto del territorio, i cenacoli, il servizio sociale parrocchiale».
LASCIATO SOLO
«Sono bastati tre anni per ammazzarlo», spiega chiaramente Rosaria Cascio, «perché a Brancaccio ha dato il meglio di sé, non era un solista, era un direttore d’orchestra. La parrocchia non era dentro le mura della chiesa, ma sul territorio. Cristo era nella stanza chiusa a chiave dove la gente teneva i disabili perché erano una vergogna. Padre Puglisi era credibile, perché parlava di povertà avendo ai piedi le scarpe rotte. Spingeva le donne ad andare dalle assistenti sociali per ricevere un aiuto. I capimafia Salvatore Cangemi, Giovanni Drago, Salvatore Riina dichiararono che Puglisi voleva fare il boss di Brancaccio, nel senso che era diventato il punto di riferimento. Le mamme non andavano più dal mafioso a vendere la loro libertà per chiedere un favore». Ma a un certo punto il rapporto si spezzò. «Quando cominciarono a fare del male a chi gli stava più vicino, padre Puglisi cominciò a denunciare, a rilasciare interviste», dice Rosaria. «La gente non accettò che venisse fuori l’equazione Brancaccio uguale mafia e iniziò a prendere le distanze. È l’isolamento che uccise Falcone, Borsellino e anche Puglisi».
Ma quel sacerdote piccolo di statura e grande nella fede parla ancora ai ragazzi. «I giovani di oggi sono molto più soli di noi, sono privi di esempi. Così anche io a scuola pratico il metodo dell’ascolto. Un giorno parlo con una ragazza, è infelice: “Vorrei che mia madre si accorgesse di me, mi abbracciasse”. La mamma mi dice: “Professoressa, mia figlia è distante, la vorrei abbracciare”. Chiamo la ragazzina, la metto faccia a faccia con la mamma e le due si abbracciano. Questo è quello che padre Puglisi avrebbe fatto».
Alessandra Turrisi
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