L'ultimo dramma di Pirandello, intitolato “Non si sa come” ci parla del mistero che è parte di noi e non possiamo farci nulla. La realtà continua a fremere, a bussare incessantemente alla soglia della coscienza...
del 26 giugno 2019
L’ultimo dramma di Pirandello, intitolato “Non si sa come” ci parla del mistero che è parte di noi e non possiamo farci nulla. La realtà continua a fremere, a bussare incessantemente alla soglia della coscienza...
“Perché volete costringermi a pensare umanamente? Io so che tutto questo non è umano”. Un bambino, nel furore di una lite scoppiata attorno a una lucertola, fracassa la testa di un suo coetaneo. Un uomo, nel rapimento di un attimo incantato, tradisce la donna che ama: tutto come in sogno, ma per davvero. Come stare di fronte a fatti simili? Come comprenderli, dove cercare la possibilità di un senso? Sono queste le domande che ardono nell’ultima opera compiuta di Luigi Pirandello: nel 1934, anno in cui verrà insignito del premio Nobel, il drammaturgo siciliano spinge ancora una volta i passi al limite dell’umano e getta lo sguardo nel buio dell’abisso, scorgendovi i tratti di un’alterità incontrollata e imprevedibile. Il mistero, che non è più soltanto fato, natura esterna, ma si fa intimo abitatore della nostra persona, voce che risuona dal nucleo più profondo della nostra anima.
Sotto lo sguardo implacabile dello scrittore, lo stesso “io” appare improvvisamente più vasto e sfuggente, si sottrae ad ogni stretta, ad ogni tentativo di controllo o decisione, minando continuamente lo schema dei progetti e della nostra volontà di autodeterminazione. È quello che avviene al conte Romeo Daddi, protagonista di Non si sa come: un uomo serio e rispettabile, profondamente innamorato della moglie Bice – la quale, da parte sua, lo ricambia coi sentimenti più puri – e che tuttavia si riscopre improvvisamente colpevole di tradimento nei suoi confronti e fatica a comprendere le proprie ragioni.
“Non sei più tu; non sai nemmeno dove sei, con chi sei; una donna è con te, su cui non hai mai fatto alcun pensiero; ma chi sa quanta gioja t’aveva dato la sola vista del suo corpo, vederla muovere, sentirla ridere, parlare. Non te l’eri mai detto, non l’avevi mai neppur pensato. Tutto fuori della tua coscienza. Un piacere soltanto per la vista, soltanto per l’udito”.
Il male non sembra avere confini: l’attimo del tradimento risveglia nell’uomo il ricordo di una colpa più antica, un omicidio commesso durante l’infanzia e rimasto sepolto nell’oblio per più di trent’anni. Agli occhi di Romeo i due delitti appaiono “innocenti”, perché “non voluti”, e tuttavia non riesce a liberarsi del loro peso, che opprime la sua mente alla follia. L’esame di Pirandello percorre ancora una volta la via dell’indagine psichica più autentica, parallela ma distante dalla coeva psicanalisi freudiana: rispetto al discorso mosso da questa, infatti, la drammaturgia non abbandona mai la sua potenza frizionale, ma riaccende continuamente l’agone in cui concorrono pensieri e sentimenti contrastanti, interrogativi che sopravanzano ogni risposta e che costantemente denunciano l’impossibilità di un senso a priori.
“E allora, addio! Vedi che non c’è scampo? Tutti i tuoi calcoli falliscono; non c’è nulla che resista! Ti vuoi opporre? A chi t’opponi? Spiegare? Che ti spieghi? Non si spiega nulla! Le leggi morali: non so se per te ci siano; pare che non ci siano; ma per me ci sono; io sto soffrendo per questo; non sono un ebete, non sono un cinico, non sono un bruto; sono un uomo, e le leggi morali sono umane, e crediamo anche divine; ma Dio è più grande assai di queste leggi come noi ce le facciamo ‘morali’, se può fare avvenire i terremoti. Io non ho voluto uccidere; io non ho voluto tradire!”.
Alla follia raziocinante che investe l’eroe pirandelliano si oppone e accompagna il thauma, quella sintesi perfetta di meraviglia e sbigottimento che già riempiva lo sguardo dei tragici antichi. Come nel teatro greco, per il drammaturgo siciliano il rivelarsi del reale è sempre infatti accompagnato, in prima istanza, dal terrore legato alla scoperta della propria piccolezza, dell’umana incapacità di comprendere e agire. Impossibile non avvertire in questo l’eco del terribile monito che Dioniso muove al sovrano Penteo nelle Baccanti di Euripide – l’opera teatrale per eccellenza, non a caso anche una delle ultime affrontate dal regista Bignamini: “Tu non sai perché vivi, cosa fai, chi sei”. Così anche Romeo Daddi, non può che farsi afferrare e travolgere dalla corrente di questi interrogativi:
“Cammino, mi vedo le cose attorno, le posso toccare, tocco, e non me ne viene più né un pensiero né un sentimento, forse neppure più una sensazione; le guardo e, dentro di me, i miei stessi pensieri, i miei stessi sentimenti, sono come ombre lontane. E puoi dire allora ch’io sto vivendo una vita cosciente? E quando credi d’esserti fatta una coscienza e hai stabilito che ogni cosa è così o così, ci vuol così poco a farti riconoscere che questa tua coscienza era fondata su nulla, e hai un bel tenerti fermo a tutte le tue certezze di prima; dove sono?”.
Come precipita la reggia di Penteo per il terremoto divino, così crollano inesorabilmente le costruzioni umane sotto le scosse dell’imprevisto. Davanti all’uomo si apre allora una scelta tragica: dimenticare, perseverare nella cecità, vivere come se nulla – l’omicidio, il tradimento: nulla – fosse accaduto, attenendosi alle cose “certe”, quelle che “si sanno”; oppure assecondare l’imprevisto e affrettare il crollo. Ma agli occhi di Romeo, la prima si rivela sempre una scelta provvisoria. Inutilmente si arrabatta per ignorare la realtà: sepolta per anni, essa continua a fremere, a bussare incessantemente alla soglia della coscienza. E allora non resta che spalancare le porte al mistero, con la follia o il coraggio di abbandonare le spiagge più note per penetrare nelle profondità della notte, cedere all’abisso, sostenuti da quell’unico ausilio della tanto nota “lanternina”. O magari, alla fine del cammino, scoprire la luna come Ciaula, che riemergendo dal buio della miniera cade a sedere “estatico”, piangendo di dolcezza: “nella notte ora piena del suo stupore”. È infatti proprio nel solco di quella novella scritta quasi trent’anni prima (Ciaula scopre la luna, 1907), che il dramma di Pirandello assume pienamente l’eredità della tragedia greca, il suo invito a non cedere alla convenzionalità di una vita già conosciuta, per farci ancora una volta spettatori del mistero. Oltre al terrore e allo smarrimento, nel thauma che accompagna il disvelarsi della realtà è racchiuso infatti un seme di segno opposto, la meraviglia: e il drammaturgo siciliano ripropone questo seme, come un fioco barlume di luce, in una reminiscenza della sua stessa novella.
“Tutti sanno che in cielo c’è la luna; e che sulla terra ci sono i boschi. Crediamo, almeno, di saperlo! Ma poi tutt’a un tratto ci accorgiamo di non averlo mai saputo veramente, quando ne abbiamo un sentimento vero, così raro, che ce ne crea d’improvviso, misteriosamente, la realtà; e la scopriamo allora, la luna, il bosco, la luna che è ‘quella’, ora sì, ‘la luna’! ‘Il bosco’, quello! Che non han più nulla da vedere con la luna e col bosco degli altri, come comunemente si sa che ci sono, l’una in cielo e l’altro in questa o in quella parte della terra. Ah, eccola, è questa la Luna!”.
“Eccola, eccola là, eccola là, la Luna”, aveva gridato anche Ciaula. E forse, in fondo, anche andare a teatro è stato e continua ad essere proprio questo, dall’Atene del V secolo alla Sicilia del Novecento, fino ad oggi, in un palazzo del bergamasco. Andare a teatro significa rispalancare le porte al mistero. Con timore, certo, magari persino con terrore; ma con gli occhi aperti, pronti a lasciarsi stupire.
Gianmarco Bizzarri
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