Il carcere toglie o limita di molto la libertà fisica dell'uomo, è uno strumento contro la libertà umana. Parlare di violenza in carcere non è muovere un'accusa, ma descrivere la realtà dei fatti; si tratta di uno strumento in se stesso anti-umano. Fin qui la teoria. Ma come si vive in carcere?
del 28 gennaio 2013
Sono sempre più drammatiche le condizioni delle carceri italiane, come anche l'UE recentemente ha sottolineato. Al proposito, riproponiamo un articolo di Giorgio Caniato, per oltre 40 anni cappellano del carcere milanese di San Vittore. Il testo era inserito nell'ambito di una sezione appositamente dedicata alla questione, con interventi dell'economista Francesco Drago ("La prigione non basta a contrastare il crimine") e della sociologa Carla Lunghi ("Lavoro creativo: dalle celle un soffio di libertà").
Sono entrato a San Vittore nel 1955, come cappellano del carcere, in base al mandato che il mio vescovo, il cardinale Ildefonso Schuster, mi diede nel 1954, pochi mesi prima di morire. Tuttavia, i miei superiori di allora si sono spaventati un po’ per la mia giovane età e mi hanno fermato. Poi è arrivato Montini, che mi ha “mandato dentro”: sono entrato in galera e non ne sono più uscito. Nel frattempo, sono stato mandato anche al “Beccaria” – il carcere minorile di Milano – di cui mi sono occupato per diversi anni, fino al 1973. Rispetto al problema dell’evangelizzazione nelle carceri, ho una posizione piuttosto semplice: la mia azione pastorale è costruita attorno all’idea che bisogna capire chi si è, leggere la realtà in cui si opera e agire di conseguenza.
Ho cercato di comprendere la struttura carceraria. Che cos’è il carcere? Il carcere fa parte del potere giudiziario dello Stato, è parte del mondo penale: è usato come forma preventiva, cautelare, oppure come forma di pena. Ovviamente ci può essere anche una pena detentiva non carceraria, ma il carcere in sé è qualcosa di molto preciso: è una struttura di detenzione imposta, repressiva, violenta. Il carcere toglie o limita di molto la libertà fisica dell’uomo, è uno strumento contro la libertà umana. Parlare di violenza in carcere non è muovere un’accusa, ma descrivere la realtà dei fatti; si tratta di uno strumento in se stesso anti-umano. Questa valutazione – che ho ripetuto varie volte nelle mie conferenze – non ha altro scopo che far prendere coscienza di che cosa sia il carcere. Del resto, il lavoro dei magistrati non deve giudicare la persona, ma il reato.
Fin qui la teoria. Ma come si vive in carcere? C’è, per così dire, un solo modo di reagire al carcere, ed è scappare: lo vorrebbero i detenuti e anche le guardie carcerarie, in un certo senso, vorrebbero andarsene. Il cappellano invece ci va di proposito, perché lì ci sono uomini a cui far incontrare Gesù Cristo, che porta la salvezza a tutti; quindi, noi dobbiamo andare ovunque ci sia un uomo, senza distinzioni di nessun tipo. Questo stile mi ha sempre accompagnato: per esempio, durante il periodo in cui si diffondeva l’abuso di sostanze stupefacenti, ogni tanto capitava di incontrare qualcuno che mostrava i sintomi dell’astinenza, attraverso sofferenze e richieste continue. Allora io spesso dicevo: non mi importa, tu sei un uomo e io ti sto di fronte come un altro uomo. La droga è una questione che non mi interessa: tu perché sei venuto da me? Spesso capitava che la finzione svanisse, ma a volte veniva meno anche il bisogno della sostanza. La mia presenza in carcere, in quanto sacerdote, non era finalizzata principalmente all’assistenza, ma soprattutto alla evangelizzazione: portare il Cristo a tutti gli uomini. Non voglio però dare l’impressione che questo incontro tra persone sia facile: il carcere è una struttura che tende a distruggere l’umano, anche attraverso il fatto che il tempo non passa mai. Ho incontrato persone condannate per omicidio; dopo quattro, cinque anni erano lì a chiedersi se non avessero già scontato la loro pena. Il detenuto può salvarsi, dentro il carcere, se si crea un rapporto personale con un operatore (un prete, un educatore…). Ho incontrato anche tanti detenuti politici, a cominciare dagli altoatesini che negli anni Cinquanta del secolo scorso facevano saltare i tralicci, nel tentativo di separarsi dall’Italia per passare all’Austria. Di questi, come di altri detenuti politici venuti dopo, negli anni di piombo, ho raccolto molte parole, ma non ne ho mai parlato con nessuno. I giornalisti mi chiedevano spesso che cosa facesse questo o quell’altro detenuto. Il rispetto che si crea in carcere si basa anche sulla capacità di rispettare la confidenza: è un rispetto tanto più necessario visto che le persone, là dentro, non sono libere. Ovviamente, non ho mai infranto il segreto sacramentale della confessione, ma non ho mai nemmeno parlato di quello che mi veniva detto in altre occasioni.
Il carcere, infatti, ha le sue regole: alcuni detenuti vengono isolati, a volte per loro protezione, altre per punizione, oppure per ottenere qualcosa da loro. Spesso l’unica persona che fa visita a questi detenuti è il cappellano, che è anche l’unico contatto che hanno. Se vogliono partecipare alla messa, per esempio, viene celebrata una messa solo per loro. La messa in carcere è bellissima: a San Vittore viene celebrata al centro, dove convergono i sei raggi, e tutti i detenuti che vogliono partecipare scendono. Viene giù una gran massa di gente. A volte, per permettere a tutti di partecipare, dicevo tante messe: per i malati, gli isolati, i detenuti sottoposti al regime del 41bis… In un certo senso, in carcere la messa è più sentita, perché è un momento di libertà: questo significa che tutti i detenuti la rispettano, anche i non credenti. La messa diventa un momento in cui si è semplicemente uomini, si torna per un attimo liberi: per questo viene rispettata. Anche quando c’erano tensioni – e qualche direttore aveva un po’ paura – li tranquillizzavo: la messa la rispettano tutti, dicevo, e così è accaduto per tutti gli anni in cui sono stato in galera.
Normalmente le messe sono molto partecipate. Quelle dell’infermeria, quelle della sezione femminile... La partecipazione coinvolge tutti: dovevo stare attento, per esempio, perché a volte i detenuti musulmani venivano a fare la comunione, dato il grande coinvolgimento. Non si può nemmeno immaginare quanta gente pianga, con quanta intensità venga vissuta la messa. E poi ero aiutato dalle suore, che davano un grande aiuto. Le suore incitavano a cantare durante la celebrazione e spesso i detenuti scherzavano e dicevano: non abbiam cantato in questura, dobbiamo cantare qui? La messa, come ogni sacramento, è un mezzo mediante il quale Gesù Cristo tocca il cuore degli uomini, anche dei detenuti: lo si vede anche da questi piccoli particolari, dal fatto che il carcere non ha spento del tutto quelle persone.
Nei 42 anni in cui ho fatto il cappellano a San Vittore mi sono realizzato come prete: ho avuto rapporti umani intensi con i detenuti, ma anche con gli agenti della polizia penitenziaria. Certo, dentro al carcere si sta tutti insieme e le relazioni non sono idilliache. Prima del 1975, anno della riforma del regolamento carcerario, lo scontro era proprio fisico: gli agenti spesso picchiavano i detenuti, che a loro volta spesso aggredivano altri detenuti oppure gli stessi agenti. Dopo si è passati a una detenzione soprattutto psicologica: i rapporti si sono, per certi versi, ammorbiditi, anche se qualche agente teneva un comportamento provocatorio. Se c’è rispetto delle norme e reciproco riguardo le cose funzionano relativamente bene, perché nessuno ha interesse a rendere la vita difficile agli altri. La regola del rispetto reciproco, per me, vale in tutte le situazioni. Così ho sempre cercato di frenare gli agenti quando esageravano, ma non ho mai “fatto la spia”, invitando però il direttore a fare cessare gli abusi. Al tempo stesso, non mi sono mai prestato a scrivere articoli o fornire notizie contro un direttore o un agente; con gli agenti parlavo, ho anche celebrato alcuni matrimoni, ma non mi sono mai discostato dal mio ruolo, rispettando il loro. Nel carcere, posso occupare un posto diverso dagli altri solo se faccio il prete, altrimenti sono anch’io uno strumento del potere giudiziario. Asciugare le lacrime di una persona che soffre, telefonare a casa per conto suo è un’opera di misericordia; a volte anche di notte mi chiedevano di chiamare a casa, di avere notizie delle loro famiglie che non sentivano da settimane. Gli agenti hanno cambiato il proprio modo di pensare anche grazie alle scuole di formazione.
Le situazioni di difficoltà che oggi si vivono in carcere, però, spesso non dipendono né dai detenuti, né dagli agenti, né dalle direzioni. Bisognerebbe chiedere allo Stato, che è il padrone del carcere, e ai suoi rappresentanti ad alto livello dove finiscono tutti i soldi stanziati. Se dentro c’è troppa gente, se i direttori non possono distribuire la carta igienica per mancanza di fondi, bisogna chiedersi dove vanno a finire i soldi. L’igiene, tanto per fare un esempio, non è qualcosa su cui si può passar sopra: i primi tempi, quando non c’erano docce e non veniva in alcun modo curata l’igiene dei detenuti, il puzzo che emanavano era tremendo. Alcune persone, non molte per la verità, vengono per dare una mano. Per esempio i volontari della VI Opera di San Fedele lavorano molto bene. In generale, i nostri operatori – cappellani e suore, educatori e volontari – cercano di aiutare le persone in silenzio, senza far clamore sui giornali. Invece bisogna stare attenti a quanti si interessano del carcere solo per fare politica.
L’amnistia ha un senso se c’è un programma serio di reinserimento dei detenuti, qualcosa che garantisca loro un lavoro e una casa, almeno all’inizio: se non si fa questo, se ci si limita a “svuotare” le carceri, il risultato è che molti sono costretti a delinquere di nuovo. C’è poi il problema, di gravità crescente, degli stranieri: dove vanno se non hanno da mangiare o un posto dove vivere? Piuttosto sarebbe opportuno aiutare queste popolazioni nei Paesi d’origine, creando occupazione e sviluppo là. C’è un po’ di retorica in giro, soprattutto quando si paragonano i centri di raccolta per immigrati al carcere: c’è una bella differenza tra queste realtà e il paragone può venire naturale solo a chi in carcere non è mai stato. Questo non vuol dire, ovviamente, che i centri di raccolta siano stati sempre gestiti con la trasparenza e la cura necessarie.
I musulmani in carcere sono molti, ma al riguardo c’è uno strano atteggiamento da parte dei loro correligionari. Mentre lo Stato fa il tentativo di venire loro incontro, per esempio mediante attenzioni alla distribuzione dei pasti durante il ramadan, le loro autorità religiose se ne disinteressano, perché li considerano criminali: quando ai rispettivi Paesi d’origine abbiamo chiesto di far venire diverse copie del Corano, queste sono arrivate, ma poi sono rimaste nelle ambasciate perché per molti musulmani un criminale non merita di pregare. Il rapporto con i vescovi e con i papi, in tutti questi anni, ha avuto momenti di grande intensità. Tanti anni fa portammo 18 ragazzi del “Beccaria” a incontrare il servo di Dio Paolo VI, facendo il viaggio in bicicletta da Milano a Roma. Il papa ci ricevette in udienza privata: un ragazzo lesse un messaggio di saluto e poi scoppiò in pianto, senza riuscire a fermarsi. Un grande evento è stato il documento del beato Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle carceri: vorrei sottolineare che il papa non parla di giubileo “delle”, ma “nelle” carceri. È una struttura repressiva della libertà umana, quindi non ci può essere un festeggiamento del carcere. In quel messaggio, il papa sottolineava che «il tempo è di Dio», anche «quello vissuto in carcere», e ricordava quindi ai governanti che non sono «signori del tempo del detenuto» (Messaggio per il giubileo nelle carceri, 9 luglio 2000).
In questo quadro, la giustizia divina appare diversa da quella umana: Dio non manda nessuno all’inferno, non costringe nessuno ad andarci, dato che anche in paradiso ci si va per scelta. La salvezza di Dio è proposta, non imposta; ispirandoci a questo criterio, dovremmo indirizzare la nostra giustizia a essere riparativa, ricostruttiva. Del resto, dal punto di vista cattolico non si giudicano le persone, ma gli atti: altrimenti il perdono cristiano che cosa significa? Ricordo che tra le opere di misericordia corporale c’è appunto la visita ai carcerati. Gesù viene a liberare i prigionieri: se non si vuol leggere questa parola solo in chiave sociologica, la si deve leggere in chiave di salvezza per l’uomo, in quanto Cristo viene a liberare l’uomo da ogni male e dalla causa di ogni male, che è il peccato. Ma questo non elimina la responsabilità personale: è curiosa la doppia sensibilità, tutta emotiva, per cui fuori dal carcere le persone sono considerate dei delinquenti, ma quando sono in galera sono considerate dei poverini. Sono invece uomini responsabili delle proprie azioni, ed è peccato anche non accettare la legge, non svolgere correttamente il proprio ruolo nella società. Ciò che si può offrire ai carcerati è il perdono di Cristo, che non toglie la pena carceraria: offre piuttosto uno sguardo su un modo diverso di vivere.
Giorgio Caniato
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