Sulla pelle delle bambine e ragazze, trascinate via con la forza, e sopra le teste dei governanti nigeriani, si sta consumando una vera “guerra nella guerra”. Con una soluzione che sembra attualmente lontana.
Il livello si sta alzando terribilmente. E il sequestro delle quasi 300 liceali del collegio di Chibok in Nigeria sta evidenziando una situazione senza precedenti. Sulla pelle delle bambine e ragazze, trascinate via con la forza, e sopra le teste dei governanti nigeriani, si sta consumando una vera “guerra nella guerra”. Con una soluzione che sembra attualmente lontana.
Da un lato l’onda mediatico-emozionale scatenata dal rapimento, con personaggi come Michelle Obama e una decina di premi Nobel che si schierano apertamente sul web, raccogliendo in poche ore quasi due milioni di adesioni. Una campagna che sabato scorso si è rinvigorita grazie all’invito alla preghiera per la liberazione venuto da papa Francesco, che si è unito all’hashtag #BringBackOurGirls. Un messaggio inviato dopo che il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, il giorno prima, aveva fermamente condannato il sequestro, chiedendo l’immediata liberazione delle ragazze. E come lui hanno fatto anche personalità dell’islam, a partire dai teologi sunniti dell’università egiziana di al-Azhar.
Sull’altro fronte di questo conflitto – drammaticamente vero, ma al tempo stesso sempre più globalizzato su Internet –, i terroristi nati anni fa nel cuore dell’islam fondamentalista del nord nigeriano. E il loro nuovo leader, Abubakar Shekau, del quale si conosce ben poco ma che dimostra di avere sia idee drammaticamente chiare sia un elevato livello di educazione militare e mediatica. Impressiona, infatti, la puntualità con la quale – nei momenti cruciali della crisi in atto – risponde in video alle sollecitazioni interne e internazionali. Lo ha fatto anche ieri, mandando in rete il filmato di oltre un centinaio di ragazze con l’hijab e in devota preghiera. Prigioniere e «libere» come ha detto lui. «Sono state convertite», ha ammonito comparendo in video per pochi attimi in tuta mimetica e kalashnikov: un’iconografia “classica” che ricorda tanto Benladen. Le «libereremo», ha affondato il suo ricatto, solo se il governo del presidente Goodluck Jonathan rilascerà i nostri compagni detenuti.
Il tutto sotto gli occhi di un “pubblico” mondiale che diventa a sua volta testimone e bersaglio. E si trasforma, implicitamente, anche in ostaggio della propaganda violenta di Boko Haram. Un mondo virtuale che i terroristi sembrano navigare ad arte, visto che sanno molto bene che in questo modo, con il passare delle ore e dei videomessaggi, stanno dimostrando quello che si sono prefissati: l’impotenza di un governo, quello di Abuja, che non è in grado di liberare le ragazze ed è sotto pressione da parte del mondo intero. Lo scopo, non certo mascherato, dei fondamentalisti è di colpire al cuore un sistema politico-economico che ha appena raggiunto il primato africano, ma che si regge su un livello di sicurezza irrisorio.
Da qui deriva senza dubbio anche il “cambio di strategia”, ma andrebbe forse chiamato “cedimento” del governo di Jonathan che, dopo aver per mesi rifiutato qualsiasi offerta di aiuto, in pochi giorni ha aperto le porte alla Cia e all’Fbi, ai servizi britannici, francesi e persino di Pechino.
La soluzione diventa quindi un’istanza anche politica. Il vano passare dei giorni e anche solo delle ore rischia di tramutarsi nella sconfitta di un leader che il prossimo anno dovrà confrontarsi con i suoi elettori (e con gli investitori stranieri). Ma fuori della Nigeria e presso un parte non irrilevante di quell’opinione pubblica interna la soluzione della crisi la dobbiamo soprattutto alle ragazze sequestrate e alle loro sorelle. Devono tornare a essere libere, semplicemente e veramente libere. E devono poter tornare a sedere ai loro banchi di scuola senza minacce né imposizioni.
Fabio Carminati
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