Boss alla sbarra. E lo Stato non c'è

Lasciati soli davanti alla 'ndrangheta. Senza avere nessuna istituzione al fianco nel processo contro i boss. Accade ai giovani della cooperativa Valle del Marro, costituita per gestire beni confiscati alle cosche della Piana di Gioia Tauro.

Boss alla sbarra. E lo Stato non c’è

 

Lunedì, davanti al gup di Reggio Calabria Olga Tarsia, si è aperto il processo per il gravissimo danneggiamento subito circa due anni fa: più di cinquecento ulivi secolari tagliati in un terreno a Castellace, frazione di Oppido Mamertina. Alla sbarra, con l’accusa di estorsione aggravata dall’articolo 7 (favoreggiamento della mafia), uno dei più noti boss della ’ndrangheta, Saverio Mammoliti, l’ex proprietario di quell’uliveto, i suoi due figli Antonino e Danilo e altri esponenti del clan, uno dei più potenti non solo in Calabria pur partendo da un paesino come Castellace. Tutti arrestati il 22 novembre 2012, nell’operazione condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria. La prima in Italia ad individuare il responsabili di attentati e intimidazioni nei confronti di cooperative e associazioni che gestiscono beni confiscati.

È evidente l’importanza del processo aperto due giorni fa: un simbolo della lotta alle mafie. Ma nell’aula del Tribunale i giovani della cooperativa, sostenuta anche dal Progetto Policoro della Cei, si trovano completamente soli. Eppure non fanno un passo indietro e si costituiscono parte civile contro il boss e i suoi uomini. Una decisione che stupisce lo stuolo di avvocati che difendono gli ’ndranghetisti, evidentemente abituati alla mancanza di reazione delle vittime. Stupiti anche dalla stessa presenza dei giovani, che «ci mettono la faccia».

Non così altre vittime, altri agricoltori della zona, anche loro angariati dalla cosca, con danni altrettanti gravi, per convincerli a vendere (di fatto a prezzi stracciati) i terreni (ecco perché l’accusa è estorsione aggravata). Ma non si costituiscono parte civile, e questo è sicuramente più grave, anche le parti offese istituzionali, citate nel rinvio a giudizio. Si tratta del comune di Oppido, proprietario del terreno dopo la confisca e l’assegnazione (la cooperativa lo ha solo in comodato d’uso gratuito), il ministero dell’Economia (i beni confiscati fanno parte del Demanio) e quello della Giustizia. Malgrado la convocazione per la prima udienza, non solo nessuno si costituisce parte civile ma neanche si fa vedere.

Due anni fa tutti aveva espresso solidarietà ai giovani, assicurando che non sarebbe stati lasciati soli, ma lunedì non c’erano né istituzionali nazionali, né locali, né associazioni, anche solo per dire «siamo al vostro fianco». E neanche la stampa locale.

Davvero da soli. Ma non è, purtroppo, una novità. Lo aveva scritto il gip nell’ordinanza di custodia cautelare per i Mammoliti. «I giovani della Cooperativa Valle del Marro sono gli unici, sul territorio che non si sono lasciati intimidire dalla figura del Mammoliti e da ciò che lo stesso ha sempre rappresentato, richiedendo ed ottenendo l’affidamento delle terre loro confiscate».

Ora non solo i giovani non hanno mollato ma hanno deciso di essere nel processo come parte civile. Invano gli avvocati hanno tentato di opporsi tirando fuori un documento inviato dal comune di Oppido dello scorso giugno che afferma che quel terreno non era stato assegnato alla cooperativa. Insomma l’amministrazione locale non solo non si costituisce parte civile ma fornisce carte agli accusati. Il tentativo è di dimostrare che, non avendo avuto il terreno, i giovani della Valle del Marro non sono parte del processo. Il realtà l’uliveto è stato assegnato addirittura nel 2008, con un decreto dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati. Tesi evidentemente accettata dal gup che ha accolto la costituzione di parte civile.

A conferma che almeno la magistratura intende andare fino in fondo. Prossime udienze (col rito abbreviato chiesto e ottenuto dagli imputati) ci saranno il 6 e il 16 dicembre. Due occasioni per dimostrare coi fatti che questi giovani coraggiosi non sono soli.

 

 

 

Antonio Maria Mira

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