La mappa del Medio Oriente e della Mezzaluna fertile rischia nei prossimi anni di essere completamente ridisegnata. Al punto che potremmo ritrovarci nel giro di qualche anno con ben 14 Stati.
Il recente tentativo dello sceicco Abu Bakr al-Baghdadi di costituire un califfato a cavallo tra Siria e Iraq cancellando i confini diligentemente disegnati nel 1920 dalla Conferenza di San Remo all’indomani del crollo dell’impero ottomano non è che la dimostrazione della bontà dell’intuizione di Robin Wright, studiosa americana e autrice di un testo ormai di culto, Rock the Casbah: Rage and Rebellion Across the Islamic World.
A poco meno di un secolo dagli accordi fra il plenipotenziario inglese Mark Sykes e quello francese François Picot (che imponevano nel ribollente quadrante che andava dall’attuale Iraq all’Egitto all’Arabia Saudita le rispettive zone d’influenza), la mappa del Medio Oriente e della Mezzaluna fertile, spiega Wright – apprezzata analista che scrive per il Washington Post, il New York Times e il Christian Science Monitor – rischia nei prossimi anni di essere completamente ridisegnata. Al punto che, secondo la documentata analisi di Wright, delle 5 nazioni prese in considerazione potremmo ritrovarci nel giro di qualche anno con ben 14 Stati, 9 in più rispetto alla situazione attuale. Vediamo come.
La parola chiave è Dawlah, letteralmente: "il Paese", oppure "lo Stato", sebbene nell’islam Stato e religione si confondano e si identifichino l’uno con l’altro. «Perché – come conferma l’algerino Boualem Sansal, autore di Gouverner au nom d’Allah – dal disgregarsi dei vecchi Stati, dal ridisegno di nuovi confini fondati su appartenenze etniche, religiose e politiche si riconosce la spinta fortissima a costituirne di nuovi».
Ed è proprio la fitnah, ovvero la secessione, la divisione fra differenti sensibilità all’interno del mondo islamico il motore che muove quel gigantesco sobbollire sotterraneo che potrebbe rendere assolutamente obsoleto l’atlante geopolitico che va da Baghdad a Tripoli, da Damasco a Riad.
L’Iraq e la Siria sono in questo senso un primo eloquente banco di prova. Al-Baghdadi vuole imporvi uno Stato sunnita dominato da jihadisti ideologicamente vicini a al-Qaeda ma ormai lontani dall’ortodossia di Benladen e del suo successore al-Zawahiri. Finora ha occupato militarmente Falluja – città–simbolo dell’insofferenza verso il governo sciita di Baghdad. Ma attenzione alle sigle: il gruppo di al-Baghdadi si chiama "Stato islamico del Levante e Sham", dove Sham sta per "Grande Siria", l’antico nome che il califfato degli Omayyadi di Damasco dava all’intera area siro-libano-transgiordanico-palestinese. In realtà la Siria – spiega la Wright – potrebbe dividersi in tre parti: un piccolo Stato alawita (la confessione sciita cui appartiene la famiglia di Bashar al-Assad) lungo la costa del Mediterraneo che comprenderebbe Homs, Damasco e Hama.
E se nel "ridotto" occidentale potrebbe ricompattarsi il clan del presidente siriano, nel nord il Kurdistan – da quasi due anni ormai completamente autonomo da Damasco – si fonderebbe quasi certamente con quello iracheno governato da Massoud Barzani a Mosul: dall’inizio della guerra civile in Siria sono almeno cinquantamila i curdi che si sono trasferiti in Iraq e il confine fra i due vecchi Paesi di fatto non esiste più. «È il momento adatto e ci sono le condizioni per discutere del nostro comune futuro», ha commentato recentemente Kamal Kirkuki, ex portavoce del parlamento curdo iracheno.
Al centro della Siria rimarrebbe una vasta regione abitata solo da sunniti (confessione da sempre maggioritaria nel Paese), che potrebbe federarsi con le province correligionarie irachene e costituire una nazione autonoma. Anche l’Iraq a sua volta si vedrebbe ripartito in tre diverse entità: quella curda a nord (assieme a quella siriana), quella sunnita che va da Baghdad a Falluja fino al vecchio confine con la Siria e il sud (da Najaf a Nasiriyha a Bassora) a maggioranza prevalentemente sciita. Tre Stati al posto di uno, come in Siria. E come ha detto l’inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler, «L’Iraq è la faglia tra il mondo sciita e sunnita e tutto ciò che accade in Siria, chiaramente, ha ripercussioni sullo scenario politico iracheno».
Insospettabilmente, anche l’Arabia Saudita potrebbe dare vita a una non meno clamorosa secessione, addirittura in cinque differenti aree. La parte del leone rimarrebbe a Riad, capitale del regno wahhabita, mentre si costituirebbero un Nord, un cruciale Ovest con Gedda e La Mecca, un’Arabia dell’Est con capitale Ad-Dammam e infine un Arabia del Sud, appoggiata ai due Yemen. I quali, in questo mosaico che si rimescola, troverebbero modo di separarsi nuovamente dopo la riunificazione del 1990, il nord con Sanaa chiuso nel Mar Rosso, il sud con Aden affacciato sul Mar Arabico. Ma da questa scissione potrebbe nascere una sorta di fusione fra parte del neonato Yemen del nord e il regno saudita: molte famiglie nord yemenite hanno nomi, usi e tradizioni in comune con quelle saudite, e Riad potrebbe inglobare parte dello Stato garantendosi così un accesso al mare antistante il Corno d’Africa e riducendo così la propria dipendenza commerciale dal Golfo Persico, per non dire dell’importanza strategica di un diverso sbocco marittimo nel lungo e mai sopito confronto con l’Iran sciita.
Non stupiamoci di questa apparente balcanizzazione della penisola arabica: il regno saudita diviso in cinque diverse regioni, etnie e confessioni non sarebbe altro che il calco quasi perfetto della situazione precedente alla spartizione operata da francesi e britannici all’indomani della Prima guerra mondiale. La miccia a lenta combustione sfrigola da tempo: la gerontocrazia che regge il reame saudita, l’acceso bigottismo religioso, la diffusa corruzione e l’alto tasso di disoccupazione non garantiscono alla culla dell’ortodossia wahhabita un futuro privo di scosse. Basti pensare che l’erede al trono designato da re Abdallah – il principe Salman bin Abdulaziz – è prossimo agli ottant’anni.
Né il capovolgimento della politica americana nell’area (l’accordo con Teheran sulla non proliferazione nucleare, l’abbandono virtuale della presenza di Washington nei siti caldi del Medio oriente a vantaggio di una politica tutta volta al Pacifico e al contenimento della Cina) contribuisce a stabilizzare Riyad nel suo ruolo di potenza regionale. Per paradosso (ma nemmeno poi tanto e già si parla di convergenze e contatti segreti) Riad e Israele condividono le medesime preoccupazioni nei confronti dell’Iran e delle guerre che il Paese degli ayatollah conduce per interposta persona.
Ultima possibile secessione – ma la più logica, a ben pensare – è quella che potrebbe interessare la Libia. A quasi tre anni dall’inizio della rivoluzione e oltre due dalla fine brutale di Muammar Gheddafi il Paese è virtualmente diviso in aree e blocchi di potere che ne condizionano la vita civile, pervaso da milizie e bande armate ciascuna con specifica origine tribale e in comune fra loro l’ansia predatrice di chi approfitta dell’assenza di un potere centrale per costituire piccoli instabili principati. Accade a Bengasi e in Cirenaica, come a Tripoli, a Zintan in Tripolitania. E accade anche a sud nel vasto e disabitato Fezzan. A chiedere da sempre la secessione è la Cirenaica. Ma questa volta – a metterli d’accordo sarebbe un’equa spartizione delle raffinerie petrolifere e dei terminal del gas – Tripoli potrebbe acconsentire. E in coda a loro, il Fezzan.
Giorgio Ferrari
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