Papa Francesco ha riconosciuto il martirio in odium fidei del giovane giudice siciliano.
Rosario Livatino fu una persona retta, giusta e di fede e, per questo, non poteva essere un interlocutore della criminalità: è quanto si evince dalla testimonianza di uno dei quattro mandanti dell’omicidio nella seconda fase del processo di beatificazione. Livatino verrà infatti beatificato nella cattedrale di Agrigento il prossimo 9 maggio dopo che, il 21 dicembre 2020, papa Francesco ha riconosciuto il martirio in odium fidei del giovane giudice siciliano.
Ma chi era Rosario Livatino e perché gli è stato riconosciuto il martirio in odio alla fede? Cosa dice ai giovani, in particolare coloro che iniziano la carriera in magistratura?
Nato a Canicattì il 03 ottobre 1952, negli anni del liceo si dedicò appassionatamente allo studio e si impegnò nell’Azione Cattolica, alimentando così la sua fede, da una parte, e trovando una possibilità di azione concreta della stessa dall’altra. Si laureò in giurisprudenza nel 1975 col massimo dei voti e nel 1978 entrò in magistratura; dopo un tirocinio presso il tribunale di Caltanissetta, nel settembre 1979, entrò nella Procura della Repubblica come pubblico ministero. Già dai suoi primi passi in magistratura aveva ben chiare le prerogative della sua professione e come doveva essere un giudice in rapporto alla società civile, avendo un’alta concezione del suo ruolo. Diceva infatti: «Ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura: che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito esige… L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica… nella sua chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori dalle mura del suo ufficio… nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari consentiti ma rischiosi, nella rinuncia ad ogni desiderio di incarichi o prebende… l’indipendenza del giudice è infine nella credibilità che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni».
Come si è detto, Livatino aveva una profonda fede e, rapportando i contenuti del credo cristiano con la sua professione, sosteneva che, dovendo il giudice decidere (una delle cose più difficili che l’uomo è chiamato a fare), il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio: un rapporto diretto in quanto il rendere giustizia è dedizione di sé a Dio, una sorta di preghiera, un rapporto indiretto perché si deve “guardare con amore” alla persona giudicata. Per lui «Non bisogna confondere la persona con il reato… la giustizia è necessaria ma non è sufficiente, può e deve essere superata dalla legge della carità». Queste sue parole ricordano anche l’esortazione apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II, laddove si dice: «la carità che ama e serve la persona non può essere disgiunta dalla giustizia» (§42). Concetto ribadito più volte dal “giudice-ragazzino” (come lo definì Cossiga) sostenendo che non si trattava di giudicare per condannare, ma di farlo per redimere, con gli occhi di Dio; come pure era consapevole che il rendere giustizia fosse un atto di donazione di sé a Dio, un atto per riportare l’ordine (al bene) voluto da Dio.
Il martirio in odium fidei, che ha aperto le porte alla sua beatificazione, è dettato dalla sua profonda fede, disprezzata e motivo di astio da parte della criminalità che gli dava appellativi spregiativi come “scimunito” o “santocchio”, e da quella rettitudine morale che lo portava a battersi senza paura contro la mafia.
Livatino fu ucciso il 21 settembre 1990, all’età di 37 anni, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento mentre andava a lavorare, senza scorta, consapevole dei rischi a cui andava incontro.
Nel 1993, incontrando i suoi genitori, Giovanni Paolo II definì Livatino «un martire della giustizia e indirettamente della fede», mentre papa Francesco lo ha definito: «un esempio per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro e per l’attualità delle sue riflessioni».
Profonda fede, coerenza, rettitudine morale, alto senso della sua professione come fosse una missione: un esempio e un invito, per tutti, ad essere persone serie, responsabili, senza cedere a compromessi “compromettenti”, alla mediocrità, al voler “fare le scarpe all’altro”, ad essere testimoni credibili del Vangelo.
La sua figura ci esorta ad essere “luce del mondo e sale della terra”, anche in una società che spesso spinge in tutt’altra direzione e che è chiusa nei propri interessi personali…
di Vezio Zaffaroni
Testo e immagine tratti da vinonuovo.it
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