La fede è essenzialmente preordinata al ‚Äòtu' e al ‚Äònoi', e attraverso questo duplice legame essa collega l'uomo a Dio. La difficoltà che noi oggi proviamo a parlare di Dio proviene forse dal fatto che il nostro linguaggio tende sempre più a trasformarsi in puro calcolo, assumendo sempre più la fisionomia d'una mera comunicazione tecnica, mentre è sempre meno...
Il dialogo di Dio con l’uomo si svolge unicamente tramite il dialogo degli uomini tra loro
«Il Credo è una formula rimastaci dall’originario dialogo “Credi tu? – Io credo”. Questo dialogo richiama a sua volta, il “noi crediamo”, in cui l’’io’ dell’affermazione “Io credo” non viene assorbito, ma trova il suo posto. Nella preistoria di questa professione di fede e nella sua forma originaria è quindi presente l’intera forma antropologica della fede. Appare evidente come la fede non sia il risultato di una elucubrazione solitaria, in cui l’’io’ escogita per sé qualcosa, pensando la verità da solo, libero e sciolto da qualsiasi vincolo; essa è invece la risultante di un dialogo, l’espressione di un ascoltare, di un accogliere e di un risponde, che mediante la reciprocità di ‘io’ e ‘tu’ inserisce l’uomo nel ‘noi’ della comunità dei credenti. “La fede nasce dall’ascolto”, dice Paolo (Rm 10,17). Ciò potrebbe apparire come una cosa strettamente legata al tempo, suscettibile quindi anche di cambiare, si sarebbe quasi tentati di vedervi unicamente il risultato di una situazione sociologica, sicché un bel giorno, al suo posto, si potrebbe forse dire: “La fede nasce dal leggere”, o dal “riflettere”. In realtà, bisogna invece dire che qui ci troviamo a ben più del riflesso di un’ora storica tramontata. Nella formula “La fede nasce dall’ascolto” ci viene data una definizione strutturale permanente di ciò che qui accade. In essa appare evidente la distinzione fondamentale tra fede e mera filosofia; distinzione che, peraltro, non impedisce alla fede di mettere nuovamente in azione, al suo interno, la ricerca filosofica della verità. In maniera ancor più incisiva si potrebbe dire che, in effetti, la fede proviene dall’udire’ e non dal ‘riflettere’, come la filosofia. La sua essenza non consiste nell’essere una elucubrazione del pensabile, che alla fine è messa a mia disposizione come risultato del mio pensiero; è invece sua peculiare caratteristica quella di provenire dall’aver udito, di essere ricezione di qualcosa che non ho pensato di mia iniziativa, sicché in ultima analisi nella fede il pensiero è sempre un ripensare quanto si è udito e ricevuto in precedenza. In altri termini: nella fede si ha una precedenza della parola sul pensiero, che la stacca strutturalmente all’impostazione tipica della filosofia. Nella filosofia il pensiero precede la parola; essa è quindi un prodotto della riflessione, che poi si cerca di rendere a parole, le quali rimangono perciò sempre un fattore secondario rispetto al pensiero, essendo esse per principio sempre sostituibili con altre parole. La fede, invece, giunge all’essere umano dall’esterno, e il suo tratto essenziale è appunto quello di giungergli dall’esterno. Essa – ripetiamolo ancora una volta – non è un pensato da me stesso, bensì ciò che mi viene detto, che mi riguarda in quanto non pensato e non pensabile, e in quanto tale mi interpella e mi impegna. Le è pertanto essenziale la duplice struttura del “Credi tu? – Io credo”, la forma dell’essere interpellati dall’esterno e del rispondere a tale appello. Non è quindi cosa affatto abnorme se noi, a prescindere da pochissime eccezioni, dobbiamo confessare: io non sono giunto alla fede attraverso una ricerca privata della verità, bensì attraverso un ricercare che mi ha, per così dire, prevenuto. La fede non può e non deve essere un mero prodotto della riflessione. L’idea che la fede debba nascere dalla nostra riflessione, che la produciamo per noi stessi, che la troviamo battendo al via di una ricerca meramente privata della verità, è in fondo già espressione di un determinato ideale, di una mentalità che misconosce la peculiare essenza della fede, la quale sta proprio nell’essere ricezione dell’impensabile, naturalmente ricezione responsabile, nella quale ciò che è accolto non diventerà mai interamente mia proprietà, io non potrò mai recuperare interamente il vantaggio di ciò che è da me accolto, quantunque debba prefiggermi di assimilare sempre meglio, abbandonandomi a esso come ciò che è più grande. Siccome le cose stanno in questi termini, siccome la fede non è qualcosa di escogitato da me, bensì che mi proviene dall’esterno, la sua parola non è per me disponibile e scambiabile a piacere, ma mi è sempre preordinata, precede perennemente il mio pensiero. La positività di ciò che mi giunge, che non nasce da me e a me si schiude, che di mia iniziativa non sono in grado di procurarmi, contraddistingue la forma del processo del credere. Ecco perché qui si ha una priorità della parola preesistente sul pensiero, per cui non è il pensiero che si crea le sue parole, bensì la parola preesistente che indica la via al pensiero che la comprende. Da questo primato della parola e dalla ‘positività’ della fede che in essa si manifesta dipende poi anche il carattere sociale della fede, il quale comporta una seconda differenziazione rispetto alla struttura essenzialmente individualistica del pensiero filosofico. La filosofia è, per sua stessa natura, opera del singolo, il quale ripensa la verità da individuo autonomo. Il pensiero, il pensato, è per lo meno in apparenza ciò che mi appartiene, perché proviene da me, sebbene il pensiero di nessuno viva esclusivamente la linfa propria, ma consciamente o inconsciamente risulti intrecciato con quello di tanti altri. Sta di fatto, però, che l’ambito in cui si sviluppa il pensiero è l’ambito interno dello spirito, sicché esso rimane in primo luogo limitato al soggetto pensante, ha quindi una struttura individualistica. Solo in secondo luogo diventa comunicabile, e precisamente quando si concretizza nella parola, che ovviamente lo rende accessibile all’altro per lo più in modo approssimativo. Per la fede invece, come abbiamo già visto, primaria è la parola annunciata. Mentre il pensiero è un fatto interiore, meramente spirituale, la parola rappresenta ciò che unisce. E’ la modalità in cui, nell’ambito spirituale, nasce la comunicazione, la forma sotto cui lo spirito si rende, per così dire, umano, ossia corporeo e sociale. Questo primato della parola dice quindi che la fede è preordinata alla comunione spirituale in maniera completamente diversa rispetto al pensiero filosofico. Nella filosofia, all’inizio sta la ricerca privata della verità, la quale solo in un secondo tempo cerca e trova i compagni di viaggio. Viceversa la fede è già in partenza un appello alla comunione, all’unità dello spirito attraverso l’unità della parola. Il suo significato, anzi, è già per principio eminentemente sociale: essa mira, infatti a creare unità dello spirito mediante unità della parola. E solo secondariamente essa schiuderà poi al singolo la via verso l’avventura di volta in volta personale della verità. Dopo aver constatato come, nella struttura dialogica della fede, venga a delinearsi un’immagine dell’uomo, possiamo ora aggiungere che in essa appare anche un’immagine di Dio. All’uomo è dato di avere rapporto con Dio quando gli è dato di avere rapporti con i fratelli. La fede è essenzialmente preordinata al ‘tu’ e al ‘noi’, e attraverso questo duplice legame essa collega l’uomo a Dio. Viceversa, ciò comporta che rapporto con Dio e fraternità umana, a partire dall’intima struttura della fede, risultano inseparabili fra loro; le relazioni con Dio, col ‘tu’ e col ‘noi’ non sono una accanto all’altra, ma si intrecciano l’una all’altra. Potremmo formulare la stessa cosa partendo anche da un altro lato, affermando: Dio vuole giungere all’uomo solo tramite l’uomo; egli non cerca l’uomo in altro modo che nella sua fraternità con altri uomini. A partire da qui, riusciremo a rendere comprensibile, almeno nell’ambito della fede, un dato di fatto che a prima vista deve apparire strano e può far sembrare problematico il comportamento religioso dell’uomo. La fenomenologia della religione, infatti, constata – e tutti posiamo constatarlo – come anche nella religione, al pari di quanto succede in tutti gli altri ambiti dello spirito umano, esista, almeno stando alle apparenze, una gradazione di talenti. Come, per esempio, nel campo della musica, conosciamo spiriti creatori, quelli unicamente recettivi e, infine, quelli talmente sprovvisti di senso musicale, così sembra avvenire nel campo della religione. Anche qui si incontrano individui religiosamente ‘dotati’ e altri ‘non dotati’; anche qui sono pochissimi coloro ai quali risulta possibile un’esperienza religiosa diretta, e quindi qualcosa come una creatività religiosa grazie a una viva penetrazione del mondo religioso. Il ‘mediatore’ o il ‘fondatore’, il testimone, il profeta o comunque la storia delle religioni voglia chiamare quelle persone che sono capaci di entrare in contatto diretto con il divino, restano pur sempre anche qui l’eccezione. Di fronte a questi pochi, per i quali il divino diviene così aperta certezza, sta l’immensa folla di coloro che possiedono capacità religiose solo ricettive; a essi l’esperienza immediata del sacro è preclusa, pur non essendo essi tanto sordi da risultare incapaci di accogliere a loro volta la possibilità di incontrarlo tramite la mediazione di una persona cui tale esperienza è stata accordata. A questo punto ci si sente spinti a obiettare: le cose non dovrebbero andare in modo che ogni persona abbia diretto accesso a Dio, se la ‘religione’ deve essere una realtà che riguarda tutti e ciascuno, e se ognuno è ugualmente interpellato da Dio? Non dovrebbe allora esserci una perfetta ‘uguaglianza di opportunità’ ed essere a ognuno possibile l’identica certezza? Stando al nostro approccio iniziale, dovrebbe forse risultare evidente come questo interrogativo giri a vuoto: il dialogo di Dio con l’uomo si svolge tramite il dialogo degli uomini tra loro. Il diverso livello di doti religiose, che divide gli uomini in ‘profeti’ e ‘uditori’, li costringe a unirsi e a essere gli uni per gli altri. Il programma enunciato dal primo Agostino “Dio e l’anima – e null’altro di mezzo” è irrealizzabile, e non è neppure cristiano. C’è religione, in fondo, non nel ritiro solitario del mistico, ma solo nella comunità di chi annuncia e di chi ascolta. Colloquio dell’uomo con Dio e colloquio degli uomini fra loro si promuovono e si condizionano a vicenda. Anzi, il mistero di Dio costituisce forse sin dai primordi la più stringente provocazione dell’uomo al dia – logo, destinata a non condurre mai a un risultato definitivo; costituisce la sfida a un dia – logo il quale, per quanto chiuso e distorto possa essere, lascia pur sempre echeggiare il Logos, l’autentica Parola da cui tutte le parole derivano e che tutte le parole cercano di esprimere in un perenne sforzo di accostamento. Il dialogo non s’instaura, però, automaticamente, non appena gli uomini discorrono su qualcosa. Il colloquio degli uomini perviene, invece, alla sua vera natura soltanto allorché essi non cercano di esporre qualcosa, ma tentano di dire se stessi, quando il dialogo diventa comunicazione. Là, però, dove questo accade, là dove l’uomo esprime se stesso (come dono nel proprio e altrui essere, come di tutto il mondo che lo circonda, del Donatore divino), ivi si parla in certo qual modo anche di Dio, che è il vero e proprio tema delle dispute degli uomini fra di loro sin dai primordi della loro storia. Basta che l’uomo cominci a parlare di sé, perché assieme al logos dell’essere umano subentri nelle parole del discorso umano anche il Logos di tutto l’essere. Nel calcolo logistico Dio non compare. La difficoltà che noi oggi proviamo a parlare di Dio proviene forse dal fatto che il nostro linguaggio tende sempre più a trasformarsi in puro calcolo, assumendo sempre più la fisionomia d’una mera comunicazione tecnica, mentre è sempre meno, nel logos, contatto con l’essere comune (dono del Donatore divino), tramite cui, o per vaga intuizione o in maniera consapevole, si viene in contatto con il fondamento di tutte le cose» [Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 2007, pp.82-88]. Come Papa, come magistero ordinario e universale Benedetto XVI ha scritto la sua prima Enciclica affermando al numero 1 che all’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti – non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo che mi parla soprattutto nella celebrazione liturgica attraverso la Bibbia, l’ascolto e mi incontra in persona attraverso l’ontologia sacramentale della Chiesa, incontro “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Risorto, presente, incontrabile ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio, Parola di Dio cui porre il nostro ascolto e non opera nostra, filosofia nostra, ideale nostro, riuscita morale nostra. E giunge a noi mediante la fede e il battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Galati, 2,20). E’ stata cambiata la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io nell’incontro con il Tu di cristo c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nel “noi” fraterno, nel quale acquista il nuovo spazio di esistenza e di rapporto con Dio.
Don Gino Oliosi
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