Gloria combatte per rivoluzionare il concetto di chirurgia pediatrica. Io spiego agli studenti che noi siamo qui per guarire, certo, ma soprattutto per curare, l'esito della vita poi non è nostro. Sono state le volte che ero in ginocchio a insegnarmi a guardare in alto...
Gloria opera feti affetti da spina bifida, usa la robotica coi lattanti, mette i carcerati al servizio dei bambini. Donna, madre e pioniera della professione. Parla il direttore di chirurgia pediatrica del San Matteo di Pavia.
È alta, bionda, di una classe riservata. Il tailleur rosa e gli orecchini di perle stonano con i lividi sugli avambracci, «dovevo portare a tutti i costi il comodino in camera di mia figlia. Siamo a Pavia da due anni e volevo che finalmente ne avesse uno suo. Era una promessa». A parlare è Gloria Pelizzo, l’unico chirurgo a fare alcuni interventi in Italia. Che combatte per rivoluzionare il concetto di chirurgia pediatrica, che insegna diversamente da come vuole la medicina moderna, che mette insieme carcerati e neonati e che «mangio, pulisco casa, vado al cinema allo stesso modo in cui opero. Vivo ogni giornata come fosse l’ultima». Così lei fa ogni cosa. «Perché nella vita bisogna rispondere. Tutto è fatto per essere incontrato e valorizzato da noi. Anche quando non capiamo».
La forza della donna che ha operato bambini affetti da spina bifida quando erano ancora in grembo, tra i pochi ad effettuare alcuni interventi di chirurgia robotica su lattanti e bambini di basso peso, è sicuramente nella particolare predisposizione fisica aiutata da un temperamento tenace. Ma a sentire parlare il chirurgo trapela una vulnerabilità che sembra fare a pugni con l’eccezionalità del suo vissuto. «Non ho fatto nulla se non dire di sì. La mia vita si costruisce su continue risposte e cedimenti a quello che capita. Un susseguirsi di chiamate di cui non ho ancora capito pienamente il senso».
Pelizzo nasce e cresce in Friuli, quando decide di andare a studiare medicina a Ferrara, dove incontra chi le fa capire che nelle cose che accadono c’è più di quanto sembra. «Era il mio primo maestro, un chirurgo di religione ortodossa che si coinvolgeva totalmente con i bambini. Fino a battezzarli e a chiamarci per fare da testimoni in sala operatoria prima dell’intervento chirurgico». Poi Pelizzo vola in Francia. E a Lione incontra quello che resterà il suo mentore. «Mi chiedeva: “Cosa mi dice di questo paziente?”. E io: “È affetto da…”. E Lui: “Ma lei lo ha sentito?”. Io: “Sì lo ho ascoltato”. “No! – si infuriava – lei lo deve prendere su di sé per sentirlo e quando lui si abbandona allora siete in sintonia totale e così può procedere”. L’immagine di quell’uomo che ascoltava i bambini tenendoli in braccio mi ha scavato dentro. Oggi cerco di insegnare questo ai miei collaboratori e agli studenti». Ma poi Pelizzo vola all’estero per approfondire gli studi e ci rimane fino a quando, appena trentacinquenne, viene nominata primario responsabile del dipartimento delle urgenze chirurgiche e dei trapianti pediatrici nell’ospedale universitario di Lione: «Il mio maestro venne da me felicissimo: “Vado in pensione in pace”, mi disse. Il giorno dopo fatti legati alla mia vita privata mi convinsero però a rientrare in Italia».
Così la donna dopo un anno a Trento ne passa un altro all’Ospedale di Ferrara e successivamente sei presso l’ospedale pediatrico di Trieste. Presto altre difficoltà inducono Pelizzo a lasciare il suo lavoro e a cercarne uno che le conceda più tempo libero. «Andai da un responsabile dell’Asl per dirgli che volevo fare il medico di base. Mi disse che non mi avrebbe mai aiutato a smettere di curare i bambini. In quei giorni mi chiamarono dall’ospedale San Matteo di Pavia, mi proponevano di dirigere la loro chirurgia pediatrica: non solo non riuscivo a trovare un lavoro con meno responsabilità, ma mi si chiedeva una rinuncia ancora maggiore, sia per la mia vita privata sia professionale, dato che sarei dovuta andare in un ospedale generale, non dedicato in maniera specifica al bambino».
«Si assuma le sue responsabilità»
Il chirurgo non vuole accettare e passa due mesi a negarsi, finché arriva l’ennesima chiamata: «Con vergogna per non essermi fatta trovare, decisi di rispondere almeno per correttezza. Ma con mia sorpresa fu la segretaria del dirigente ospedaliero a sgridarmi: “Dottoressa la smetta di scappare e si assuma le sue responsabilità”, disse. Mi lasciò di stucco, quella frase continuava a provocarmi anche se ero decisa a non accettare. Qualche giorno dopo ebbi un incidente d’auto a cui sopravvissi miracolosamente. Fui soccorsa da una donna. Rifiutai di andare all’ospedale e lei mi riaccompagnò a casa facendo cento chilometri di strada. “Scusi – le chiesi sul cancello di casa – ma l’Aci fa anche questo?”. “Quale Aci – mi rispose – io sono solo una ragazza che passava per strada”. E io: “Perché lo ha fatto?”. “Il bene torna sempre indietro. Anche lei ha fatto tanto bene e deve continuare a farlo”. Mi rispose così e se ne andò. Fu il secondo fatto che mi chiamava a rimanere fedele a quel lavoro. E a non scappare da quello che mi era chiesto, anche se avrei dovuto ricominciare tutto da capo».
È questa, infatti, la battaglia di Pelizzo. Quella che «continuo a fare cercando di viverla prima di tutto io, giorno dopo giorno, guardando il bambino come un essere unico, come un mondo a sé di cui c’è ancora tutto da conoscere e non come un piccolo adulto». In questi due anni il chirurgo è riuscito già a fare molto: ad adottare l’approccio multidisciplinare, a non spostare i pazienti da un reparto all’altro, chiedendo che siano i diversi specialisti ad andare nel suo. A usare la chirurgia robotica anche sui bambini di basso peso e a fare delle diverse figure professionali una squadra. Anche se «a me pare di non fare mai abbastanza e anche se non tutti sono sensibili al tema».
Il suo pare un sacrificio senza ritorno, cosa la fa andare avanti? «Non so di preciso chi mi abbia voluta qui. Ma quando incontrai il presidente della Regione, Roberto Formigoni, gli dissi chi ero: “So che si aspettava un uomo probabilmente. Io non ho la barba, ma sono qui”. Formigoni mi disse di sapere tutto. Aprii il mio cuore per dirgli le mie difficoltà. Che i bambini sono spesso trattati come piccoli adulti e che questo ha conseguenze gravi. I bimbi disabili, i più fragili che sono spesso nutriti con il sondino nasogastrico a permanenza, come vent’anni fa quando oggi, invece, ci sono le gastrostomie. Gli dissi che sapevo di essere scomoda per il fatto di trattare i feti in grembo come pazienti, perché operavo bambini di 22 settimane, arginando i danni della spina bifida e portandoli a camminare, quando a quell’età gestazionale l’aborto cosiddetto terapeutico è ancora possibile. “Presidente, continuai, sto perdendo ogni sicurezza nella vita e sto pagando un prezzo personale alto per aver accettato questo posto, ma l’ho fatto per obbedienza. Però se lei non è con me io mollo”. “Noi ci siamo”, mi rispose. Capivo che mi comprendeva e che aveva a cuore il bene comune».
«Aiuterò i bambini come me»
«In quei giorni mi era capitato di operare un bambino venuto dall’Africa. Era malformato, non parlava ed era stato emarginato perché ritenuto colpevole della malattia che lo aveva sfigurato impedendogli di parlare. Nessuno voleva prendersene cura. Decisi di operarlo. Dopo un mese e mezzo parlava. Non solo, ritrovai nel mio studio una lettera scritta da lui nella nostra lingua. Mi ringraziava felice di vedere affermata la sua dignità e di integrarsi nel suo paese: “Ho deciso che diventerò un medico per aiutare i bambini africani trattati come me”, scriveva dimostrando un’intelligenza straordinaria. Lo aiuterò a studiare e chissà che cosa accadrà».
In reparto la sua presenza importante potrebbe pesare a qualcuno, ma sono molti ad amarla. «Cerco di trattare i miei collaboratori al meglio: è necessario per far funzionare un reparto e stimolarli ad alzare sempre di più la barra della professionalità e della conoscenza. Poi, certo, è commovente vedere che lasciandolo aperto al personale, l’ufficio diventa una casa comune (mio fratello quando viene a trovarmi lo chiama un’agorà): quando accade, come stamattina, che mi sono trovata a pregare in ufficio con le infermiere che avevano chiamato il cappellano per una benedizione, so di non essere sola».
C’è chi in difficoltà, ha ritrovato lo stimolo lavorando nel suo reparto. «Tante volte il meglio viene da chi, magari perché fragile, è più emarginato. Ho imparato che è proprio lui e o lei, quello “scartato” che diventa la “pietra miliare”». Ecco il bene. E le torna indietro davvero? «Ieri, dopo due settimane in cui non ero riuscita, per i troppi impegni sopraggiunti, a fare quello che avevo promesso alle infermiere, ho chiesto loro scusandomi se stavano bene: “Non si preoccupi, noi ci siamo, lei vada avanti”. Arrivano persino a gestirmi l’agenda o a ricordarmi di mangiare quando lo dimentico». Per questo c’è chi è disposto a tanto per lavorare con lei: «Guardi che io chiedo molto. Per me non esiste che si stia qui a metà. Per lavorare al massimo non puoi separare la vita dal lavoro. C’è chi lo insegna nelle facoltà, ma è sbagliato: così si crescono dei guaritori e non dei curatori. Che si difendono e si sentono dei falliti se non va tutto tecnicamente bene. Io spiego agli studenti che noi siamo qui per guarire, certo, ma soprattutto per curare, l’esito della vita poi non è nostro». Sì ma se il paziente muore? Se è impossibile salvarlo? «Anche quando muore il corpo, per me lui non muore mai. Se sai che la vita non la salvi tu, ognuno diventa un incontro. Per questo non ho paura di coinvolgermi. Bisogna insegnare questa speranza altrimenti tra un po’ i medici scapperanno tutti».
«O qui, o all’happy hour»
Pelizzo dice di non risparmiare nulla a studenti e collaboratori: «Ricordo uno specializzando a cui chiesi verso sera di seguire un’urgenza. Mi disse che doveva andare a fare l’happy hour. Risposi che se sceglieva così forse era meglio che ci andasse tutte le sere. Nessuno è obbligato a fare questo lavoro. Capì anche lui, se ne andò e rispetto la sua scelta». Per seguire Pelizzo, però, ci sono anche professionisti che hanno lasciato un lavoro redditizio e stabile, scegliendo piuttosto di lavorare da precario: «È capitato. Un professionista passò di qui un giorno. Dopo poco tornò dicendomi che si era licenziato. Aveva lasciato il suo paese per lavorare con noi. “Ma io non posso darle un lavoro così remunerato”, gli spiegai. “So che devo stare qui, lo accetti”, rispose. Così è stato. Lo stesso era accaduto qualche anno fa per un altro medico che ora è stato assunto». Eppure continua a chiedersi perché proprio qui e perché ad un prezzo alto. Che tutto interroghi il chirurgo lo dice anche la musica in reparto per i bambini e il suo incontro con i carcerati: «Scoprii che il papà di una compagna di classe di mia figlia era agente di custodia. Gli chiesi di farmi conoscere quella realtà. Fra i detenuti mi fu subito evidente il perché di quell’incontro: c’è una profonda analogia fra neonati e carcerati. Entrambi non vivono proiettati nel futuro, hanno bisogno ora, qui, adesso: i primi hanno necessità di cure, i secondi di riscatto; i primi di genitori, i secondi di recuperare la dignità di uomo e di padre. Fatto sta che ora i carcerati fanno i dolci per i bambini del reparto. Rilegano e commentano i diari sulla vita quotidiana dei nostri piccoli. E se tutto va bene la loro falegnameria farà letti personalizzati per i pazienti».
Se le si chiede quali progetti aveva per sé, Pelizzo risponde che vorrebbe stare solo in sala operatoria con i suoi pazienti e che vorrebbe aver guardato di più a certe situazioni, «perché se anche una sola volta non sei stato leale con quello che vuoi davvero, prima o poi i nodi vengono al pettine». Eppure «sono state le volte che ero in ginocchio a insegnarmi a guardare in alto, che siano state permesse per lasciarmi una sana inquietudine dentro. Affinché non mi accontenti di avere il mondo e di perdere l’unica cosa che vale: me stessa. Questo è il ruolo di Dio e in questo senso il vero stakanovista è Lui».
Benedetta Frigerio
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