Pubblichiamo per intero il testo inedito nel quale Bergoglio, ricordando con gratitudine la spiritualità dei salesiani, rievoca con vivace lucidità l'educazione ricevuta nel loro collegio.
Quel collegio frequentato a tredici anni
Il 20 ottobre 1990 Jorge Mario Bergoglio scrive da Córdoba una lunga lettera al salesiano Cayetano Bruno, lo storico della Chiesa in Argentina, per ricordare Enrique Pozzoli, il salesiano amico di famiglia che lo aveva battezzato il 25 dicembre 1936 e aveva seguito il suo cammino spirituale. Terminate quelle sei pagine dattiloscritte (pubblicate dall’Osservatore Romano nel numero del 23-24 dicembre 2013), Bergoglio aggiunge altre cinque cartelle dove raccoglie alcuni «ricordi salesiani», in particolare quelli relativi al 1949, anno in cui, tredicenne, aveva frequentato il Colegio Wilfrid Barón de los Santos Ángeles a Ramos Mejía, nel Gran Buenos Aires. Pubblichiamo per intero il testo inedito nel quale Bergoglio, ricordando con gratitudine la spiritualità dei salesiani, rievoca con vivace lucidità l’educazione ricevuta nel loro collegio. Un’educazione che configurava una vera e propria «cultura cattolica» e che lo preparò «per la vita». Il testo, conservato nell’archivio storico salesiano di Buenos Aires, è qui presentato in una nostra traduzione che conserva tutte le particolarità e i rarissimi lapsus dell’originale, mentre i pochi interventi sono inseriti in corsivo e tra parentesi quadre. (g.m.v.)
1. Ho appena terminato la relazione dei miei ricordi su P. Enrique Pozzoli. Ora voglio completare la mia promessa di scriverle alcuni ricordi del mio contatto con i Salesiani, così come eravamo rimasti. E inizio con un aneddoto un po’ volteriano. Nel 1976 trasferimmo la Curia Provinciale a San Miguel. Cominciavano ad arrivare vocazioni nuove e sembrava conveniente che il Provinciale stesse vicino alla Casa di Formazione. Si tornò a riformare il programma di studi: 2 anni di iuniorato (che erano spariti), la filosofia separata dalla teologia tornò a imporsi, sostituendo quel “miscuglio” di filosofia e teologia che era stata chiamata “curriculum” dove si cominciava studiando Hegel (sic!). Stando a San Miguel vidi i quartieri senza cura pastorale; ciò mi preoccupò e iniziammo a seguire i bambini; il sabato pomeriggio insegnavamo catechismo, poi giocavano, ecc. Mi resi conto che noi Professori avevamo il voto d’insegnare la dottrina a bambini e ignoranti, e cominciai io stesso a farlo insieme agli studenti. La cosa andò crescendo; si edificarono 5 chiese grandi, si mobilitarono in modo organizzato i bambini della zona... e solamente il sabato pomeriggio e la domenica mattina... Allora venne l’accusa che questo non era un apostolato proprio dei gesuiti; che io avevo salesianizzato (sic!) la formazione. Mi accusano di essere un gesuita pro-salesiano, e forse ciò fa sì che i miei ricordi siano un po’ di parte... ma resto tranquillo perché il mio interlocutore di questo momento è un salesiano pro-gesuita, e lui saprà discernere le cose.
2. Non è strano che parli con affetto dei Salesiani, perché la mia famiglia si alimentò spiritualmente dei Salesiani di San Carlos. Da bambino imparai ad andare alla processione di Maria Ausiliatrice, e anche a quella di Sant’Antonio della Calle México. Quando stavo a casa di mia nonna andavo all’Oratorio di San Francesco di Sales (a seguirmi lì era l’attuale P. Alberto Della Torre, cappellano dell’aviazione). È naturale che sia tifoso del San Lorenzo (ci mancherebbe altro) e fino a poco tempo fa ho conservato una “Historia del Club San Lorenzo” scritta da P. Mazza (credo): l’ho regalata a Don Hugo Chantada, giornalista cattolico di La Prensa, tifoso accanito del San Lorenzo. Ora ce l’ha lui. Fin da bambino conobbi i famosi Padri confessori di San Carlos: Montaldo, Punto, Carlos Scandroglio, Pozzoli. E fin da bambino tenevo tra le mani la “Instrucción religiosa” di P. Moret. Ci avevano insegnato a chiedere “la benedizione di Maria Ausiliatrice” ogni volta che ci congedavamo da un Salesiano.
3. [sic] Ma l’esperienza più forte con i Salesiani fu nell’anno 1949, quando frequentai come interno il sesto grado nel Collegio Wilfrid Barón de los Santos Ángeles, a Ramos Mejía. Direttore P. Emilio Cantarutti, Consigliere P. Plácido Avilés; Catechista P. Isidoro Holowaty; Prefetto P. Isidro Fueyo. Nell’Amministrazione lavorava il Coadiutore Sig. Fernandez [sic]. Dei chierici mi ricordo del Sig. (Leonardo o Leandro) Cangiani e di Rubén Veiga. Tra i Padri anziani c’erano i PP. Usher, Lambruschini, Cingolani, ecc. Mi costa fare una descrizione parziale di diversi aspetti del Collegio, semplicemente perché ho riflettuto molte volte su questo anno di vita e, poco a poco, è andata formandosi una riflessione d’insieme, che è quella che vorrei trasmettere qui. Sono cosciente che sarà qualcosa d’intellettualizzato, forse senza la freschezza del semplice aneddoto, ma — d’altra parte — so anche che questa visione d’insieme è quella che ho elaborato io gradualmente, e nasce della mia esperienza; è a mio avviso obiettiva.
4. La vita di Collegio era un “tutto”. Ci si immergeva in una trama di vita, preparata in modo che non ci fosse tempo ozioso. Il giorno passava come una freccia senza che uno avesse il tempo di annoiarsi. Io mi sentivo sommerso in un mondo che, sebbene preparato “artificialmente” (con risorse pedagogiche), non aveva nulla di artificiale. La cosa più naturale era andare a Messa la mattina, come fare colazione, studiare, andare a lezione, giocare durante la ricreazione, ascoltare la “Buonanotte” del P. Direttore. A ognuno si facevano vivere diversi aspetti assemblati della vita, e questo creò in me una coscienza: coscienza non solo morale ma anche una specie di coscienza umana (sociale, ludica, artistica, ecc.). Detto in modo diverso: il Collegio creava, attraverso il risvegliarsi della coscienza nella verità delle cose, una cultura cattolica che non era per nulla “bigotta” o “disorientata”. Lo studio, i valori sociali di convivenza, i riferimenti sociali ai più bisognosi (ricordo di aver imparato lì a privarmi di alcune cose per darle a persone più povere di me), lo sport, la competenza, la pietà... tutto era reale, e tutto formava abitudini che, nel loro insieme, plasmavano un modo di essere culturale. Si viveva in questo mondo, aperto però alla trascendenza dell’altro mondo. Mi risultò molto facile, poi nella scuola secondaria, fare il “trasferimento” (in senso psico-pedagogico) ad altre realtà. E questo semplicemente perché le realtà vissute nel Collegio le avevo vissute bene; senza distorsioni, con realismo, con senso di responsabilità e orizzonte di trascendenza. Questa cultura cattolica è — a mio avviso — il meglio che ho ricevuto a Ramos Mejía.
5. Tutte le cose si facevano con un senso. Non c’era nulla “senza senso” (almeno nell’ordine fondamentale; perché accidentalmente c’erano gesti d’impazienza di qualche educatore o piccole ingiustizie quotidiane, ecc.). Io imparai lì, quasi inconsapevolmente, a cercare il senso delle cose. Uno dei momenti chiave di questo imparare a cercare il senso delle cose era la “Buonanotte” che generalmente dava il P. Direttore. A volte lo faceva il P. Ispettore, quando passava per il Collegio. In proposito ricordo ancora, come se fosse oggi, una “Buonanotte” di Mons. Miguel Raspanti che in quel momento era ispettore. Fu all’inizio di ottobre del 49. Era andato a Córdoba perché sua madre era morta il 29 settembre. Al suo ritorno ci parlò della morte. Ora, a quasi 54 anni, riconosco che quella piccola riflessione serale è il punto di riferimento di tutta la mia vita successiva riguardo al problema della morte. Quella sera, senza provare paura, sentii che un giorno sarei morto, e mi sembrò la cosa più naturale. Quando uno o due anni dopo venni a conoscenza di come era morto P. Isidoro Holowaty, di come aveva sopportato per mortificazione per tanti giorni il dolore alla pancia (lui era infermiere) finché un mercoledì P. Pozzoli, che era andato lì a confessare i salesiani, gli ordinò di vedere il medico, ebbene, quando ne venni a conoscenza, mi sembrò la cosa più naturale che un Salesiano morisse così, esercitando virtù. Un’altra “Buonanotte” che fece impressione fu una di P. Cantarutti sulla necessità di pregare la Santissima Vergine per capire bene la propria vocazione. Ricordo che quella notte pregai intensamente fino al dormitorio (si dovette notare qualcosa perché due giorni dopo P. Avilés mi buttò lì un commento)... e da quella sera non mi sono mai addormentato senza pregare. Era un momento psicologicamente adatto a dare un senso al giorno, e alle cose.
6. Nel Collegio imparai a studiare. Le ore di studio, in silenzio, creavano un’abitudine di concentrazione, di dominio della dispersione, abbastanza forte. Sempre con l’aiuto dei professori, ho imparato un metodo di studio, regole mnemotecniche, ecc. Lo sport era un aspetto fondamentale della vita. Si giocava bene e molto. I valori che insegna lo sport (oltre alla salute) già li conosciamo. Nello studio come nello sport aveva una certa importanza la dimensione della competizione: ci insegnavano a competere bene e a competere da cristiani. Con gli anni ho sentito alcune critiche a questo aspetto competitivo della vita... Ma curiosamente le facevano cristiani “liberati” da questo aspetto pedagogico ma che nella vita quotidiana si scannavano tra loro per denaro o per potere... e non competevano da cristiani.
7. Una dimensione che crebbe molto negli anni successivi a quello trascorso nel Collegio fu la mia capacità di sentire bene: e mi resi conto che la base era stata posta nell’anno d’internato. Lì mi educarono il sentimento. I Salesiani per questo hanno una speciale abilità. Non mi riferisco al “sentimentalismo” bensì al “sentimento” come valore del cuore. Non aver paura di sentire e dire a se stesso ciò che uno sta sentendo.
8. L’educazione della pietà era un’altra dimensione chiave. Una pietà virile, adeguata all’età. Nella pietà merita una speciale menzione la devozione alla Santissima Vergine. A me la impressero a fuoco... e, per quel che ricordo, anche ai miei compagni. E il ricorso a Nostra Signora è fondamentale per la vita. Va dalla consapevolezza di avere una Madre in cielo che si prende cura di me alla recita delle tre Avemaria, o del Rosario. Ma la Vergine è rimasta, e non è potuta andar via, dal nostro cuore. Ci inculcavano anche, e rimaneva impresso, rispetto e amore per il Papa. A volte ho ascoltato critiche sulla “pietà” che ci veniva inculcata nel Collegio (le ho sentite anni dopo), ma sono sempre le solite tiritere di chi non vuole andare a messa perché nel Collegio lo obbligavano a farlo, ecc. È una critica anacronistica perché si trasferisce al campo della pedagogia della pietà un problema puntuale com’è quello della ribellione adolescenziale o giovanile.
9. Strettamente unito all’amore e alla devozione alla Vergine Santissima era l’amore per la purezza. In proposito (e, credo, a proposito di tutto il sistema preventivo di Don Bosco) c’è un’incomprensione molto grande. A me insegnarono ad amare la purezza senza nessun tipo di insegnamento ossessivo. Non c’era ossessione sessuale nel Collegio, almeno nell’anno in cui stetti lì. Più ossessione sessuale ho trovato in seguito in altri educatori o psicologi che facevano ostentatamente mostra di un “laissez-passer” al riguardo (ma che in fondo interpretavano i comportamenti in una chiave freudiana che vedeva sesso ovunque).
10. C’era anche posto per gli hobby, lavori artigianali, inquietudini personali. P. es. P. Lambruschini c’insegnava a can- tare, con P. Avilés imparai a costruire un macchinario per riprodurre documenti e a usarlo; c’era un Padre ucraino (P. Esteban) e chi voleva imparava a servire la messa in rito ucraino... e così molto altro (teatro, organizzare campionati, atti accademici, tassidermia, ecc.) che canalizzavano hobby e inquietudini. Ci si educava alla creatività.
11. Come affrontavano le crisi i nostri educatori? Ci facevano sentire che potevamo fidarci, che ci volevano bene; sapevano ascoltare, ci davano buoni consigli, opportuni... e ci difendevano tanto dalla ribellione come dalla malinconia.
12. Tutte queste cose configuravano una cultura cattolica. Mi prepararono bene per la secondaria e per la vita. Mai (per lo meno per quel che ricordo) si negoziava una verità. Il caso più tipico era quello del peccato. Fa parte della cultura cattolica il senso del peccato... e lì nel Collegio ciò che mi ero portato da casa in quel senso si rafforzò, prese corpo. Uno dopo poteva fare il ribelle, l’ateo... ma nel profondo era impresso il senso del peccato: una verità che non si poteva buttare via, per rendere tutto più facile. Parlo di cultura cattolica perché tutto ciò che facevamo e imparavamo aveva anche una unità armoniosa. Non ci si “parzializzava”, ma una cosa si riferiva all’altra e si completavano. Inconsciamente uno si sentiva crescere in armonia, cosa che certo non poteva esplicitare in quel momento, ma in seguito sì. E, d’altra parte, tutto era di un realismo impressionante.
13. Non vorrei cadere nella psicologia dell’ex-alunno, un atteggiamento nostalgico, proustiano, dove la memoria seleziona parti rosa della vita e nega gli aspetti più limitati o carenti. Nel Collegio c’erano mancanze, ma la struttura educativa non era manchevole. Per questo — con gli anni — resta la solidità di questa educazione, e questa solidità che resta è positiva. È quanto ho appena descritto nei paragrafi precedenti. C’erano cose nel 1949 che non sono attuabili nel 1990... ma sono convinto che il patrimonio culturale salesiano del 1949, questo patrimonio pedagogico, è capace di creare nei suoi alunni una cultura cattolica anche nel 1990, come fu capace di crearla nel 1930.
Dico questo perché verso la fine dello scorso anno mi è successo qualcosa che mi ha rattristato. Un Padre Salesiano, che stimo molto, mi ha detto in una conversazione che stavano pensando di lasciare alcuni Collegi in mano ai laici. Gli ho chiesto se era per mancanza di vocazioni. In parte, mi ha detto, era questa la ragione, perché i giovani salesiani non vogliono lavorare nei Collegi, non si sentono attratti da questo apostolato. Io gli ho detto che accadeva tutto il contrario con i giovani gesuiti: vogliono lavorare nei Collegi... e non sono affatto conservatori. C’è di più: negli ultimi 18 anni la Provincia Argentina della Compagnia aveva aperto vari Collegi, usando la forma del Collegio parrocchiale. Mentre io ero Rettore del Máximo, si erano aperti due Collegi nel suo terreno: uno di educazione tecnica e l’altro di educazione dell’adulto. E ora ne è stato appena aperto un terzo proprio lì: primario e secondario. Al padre ho anche detto che più che un problema dei giovani mi sembrava che fosse un problema di come si formavano i giovani... e che vedessero se la mancanza non stesse proprio lì... Quel Padre mi ha anche detto che un’altra ragione era quella di “fare un gesto di inserimento” (sic!) nei quartieri, e per questo avrebbero lasciato i Collegi, o alcuni di essi. Che era una “opzione” pastorale. Di fronte a questo non ho potuto non pensare ai salesiani che avevo conosciuto in Collegio; non so se “facevano gesti di inserimento”, ma che si sfiancavano tutto il giorno e che non avevano neppure il tempo di fare un riposino, questo sì lo so. Se quegli uomini che avevo conosciuto in Collegio — e con questa riflessione concludo — poterono creare una “cultura cattolica”, fu perché avevano fede. Credevano in Gesù Cristo e — un po’ per fede e un po’ per faccia tosta — avevano il coraggio di “predicare”: con la parola, con la loro vita, con il loro lavoro. Non si vergognavano di schiaffeggiarci con il linguaggio della croce di Gesù che è vergogna e follia per altri. Mi domando: quando un’opera langue e perde il suo sapore e la sua capacità di far lievitare la pasta, non sarà piuttosto perché Gesù Cristo è stato sostituito da altre opzioni: psicologiste, sociologiste, pastoraliste? Non voglio essere semplicista, ma non smetto di preoccuparmi per il fatto che — per fare gesti radicali d’inserimento sociale — si abbandoni l’adesione a Gesù Cristo vivo e il conseguente inserimento in qualsiasi contesto ambientale, compreso quello educativo, per costruire una cultura cattolica.
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