Portiamo il tesoro di una fede rocciosa in vasi fragili. Se ne siamo coscienti, e lo confessiamo senza reticenze, l'emozione della sua grazia coinvolgerà anche noi che la portiamo. Noi stessi ne saremo toccati...
Ecco, questo sono io: un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi». Nella sua lunga intervista, raccolta dal confratello gesuita padre Antonio Spadaro, direttore de "La Civiltà Cattolica" e pubblicata dalle riviste dei gesuiti nel mondo, il Papa risponde così alla domanda: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Domanda diretta, e persino impertinente, da fare a un Papa. In questo caso, però, è una domanda singolarmente pertinente, e quasi inevitabile. Tutti sentiamo, infatti, che c’è un legame particolarmente diretto tra il fondo dell’anima di quest’uomo che è diventato Papa e il suo modo di confermarci nella tradizione della fede che abbiamo ricevuto, ancorata sin dall’inizio alla roccia di Pietro. Tutti i commentatori, nella diversità del loro orientamento religioso o laico, ci comunicano questa intuizione di fondo: il papa Francesco, mentre ci istruisce e ci ammonisce sul modo con cui la fede della Chiesa deve toccare il cuore dell’uomo (di ogni uomo, dell’uomo che c’è ora, secolarizzato e vaccinato, e anche dato per perso) fa sempre intravedere il modo in cui questa fede lo tocca nella sua stessa sensibilità. Nel gesto, nella parola, nel tratto, nel lampo improvviso e sorpreso dello sguardo.
Portiamo il tesoro di una fede rocciosa in vasi fragili. Se ne siamo coscienti, e lo confessiamo senza reticenze, l’emozione della sua grazia coinvolgerà anche noi che la portiamo. Noi stessi ne saremo toccati, noi che siamo talora così assuefatti alla convinzione che nel cristianesimo non ci siano più sorprese (e addirittura, che non ce ne debbano essere). Noi stessi, che rischiamo ogni momento di apparire come dei forzati della consacrazione, invece che come lietamente consegnati alla generazione di figli di Dio, fecondi cento e cento volte già in questa vita. Il papa Francesco insiste ancora su questo punto: non dobbiamo diventare «scapoloni» e «zitellone», che riducono «il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità».
In effetti, non appena il velo del tempio si squarcia, (e noi non ci costruiamo un bel muro al suo posto), molti pubblicani e samaritani, ai quali avevamo già assegnate le inevitabili distanze, scoprono che nel tocco di Dio che noi portiamo c’è qualcosa di assolutamente emozionante. Impensato. Insperato. Il tocco di Dio era stato archiviato dalla città secolare: tabernacoli e burocrazia non irradiano nulla, del resto, senza miracoli e profezia. Quando risplende il tesoro che porta, invece, la Chiesa diventa capace di «curare le ferite» e «riscaldare il cuore». «Io ho una certezza dogmatica», scandisce papa Francesco: «Dio è nella vita di ogni persona».
Tutto il discernimento, tutta la misericordia, tutta l’audacia e tutto il coraggio della Chiesa, si armonizzano intorno a questo diapason, che dà il "La" a tutti gli strumenti. La sinfonia che deve essere composta ed eseguita ha questo motivo conduttore: «Cercare e trovare Dio in tutte le cose», in tutte le forme di vita, in tutte le persone. L’audace lavoro del discernimento è: «Dov’è Dio, qui?». Perché Dio c’è, di sicuro.
Questo lavoro della fede della Chiesa è in favore degli umani, dovunque siano. Li riconosce nella folla, anche quella più lontana e marginale, perché non si sottrae mai ad essa.
Il lavoro della fede è fatto di passione e di intelligenza, di sapienza e di azzardi. È umile e cocciuto: accetta persino di attraversare il dubbio, senza perdere la fede, e di scendere nella notte, senza perdere la strada. La nostra testimonianza rimane in presa diretta con la nostra vulnerabilità: ma anche con il tocco di Dio, che la riscatta ogni volta. Dio non lo trovi e non lo fai trovare se sotterri il talento per paura dell’incertezza e del buio. La Chiesa è un azzardo, certo. Ma Dio è la sorpresa che ne esce fuori. Sempre. Non sta un po’ succedendo?
Pierangelo Sequeri
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