In cammino con la chiesa

Ispirazioni

In questa prima parte della Proposta Pastorale, questo primo capitolo ci sintonizza con i cammini della Chiesa.

Pellegrini di speranza

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore»
(Lc 4,18-19)

In quanto anniversario dell’incarnazione del Signore, l’anno 2025 è un anno giubilare. Nella tradizione cattolica il giubileo è un grande evento della fede. È l’anno della remissione dei peccati, della riconciliazione con Dio e tra gli uomini, della conversione e della penitenza sacramentale e, di conseguenza, della solidarietà, della speranza, della giustizia, dell’impegno al servizio di Dio nella gioia e nella pace con i fratelli. L’anno giubilare è soprattutto l’anno del Signore Gesù, portatore di vita piena e abbondante per tutti.
Le sue origini si ricollegano all’Antico Testamento. La legge di Mosè aveva fissato per il popolo ebraico un anno particolare, da celebrarsi ogni cinquant’anni (cfr. Lv 25,10-17). La tromba con cui si annunciava questo anno speciale era ricavata da un corno d’ariete, che in ebraico si dice Yobel, da cui deriva la parola giubileo. La celebrazione di quest’anno comportava, tra l’altro, la restituzione delle terre agli antichi proprietari, la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi e il riposo della terra. Un anno di gioia, pace e riconciliazione.

L’inizio della missione di Gesù

Nel Nuovo Testamento Gesù si presenta come colui che porta a compimento l’antico giubileo. Propriamente la sua parola e i suoi gesti, la sua azione e la sua passione sono motivo di giubilo, di letizia, di gioia.
Se andiamo all’origine della sua missione pubblica, scopriamo che proprio così egli ha interpretato la sua venuta in mezzo a noi: propriamente l’annuncio specifico della sua missione riguarda la proclamazione dell’anno di grazia del Signore. Conviene quindi partire senza indugio dall’ascolto del testo specifico di riferimento, che è per noi particolarmente eloquente:

16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere.
17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l’anno di grazia del Signore.
20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui.
21Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,16-21).

Gesù, con un’azione tipicamente liturgica – si trova nella sinagoga, il luogo del culto – riceve il libro, lo apre, ne legge il contenuto, lo bacia in segno di grande rispetto e finalmente lo chiude.
La chiarezza dei gesti e delle parole non lasciano alcun dubbio: finisce una situazione e ne comincia un’altra. L’adempimento delle scritture è una “rottura”, perché un libro viene chiuso e viene inaugurata la nuova e definitiva forma dell’esserci di Dio in mezzo al suo popolo. Gli occhi dei concittadini di Gesù sono prima fissi sul rotolo della parola scritta (che anche oggi sta nel centro della sinagoga, luogo di culto ebraico), ma poi si dice che «gli occhi di tutti erano fissi su di lui»: è un cambio di prospettiva non indifferente, sul quale meditare con attenzione. Si passa dalla parola scritta su un rotolo alla parola viva, che si è fatta carne. Si passa, liturgicamente, dalla centralità dell’ambone alla centralità dell’altare, luogo della presenza e del sacrificio del Signore.
Con Gesù, Dio si fa presente in maniera ultima e definitiva nella storia degli uomini: dopo di lui non c’è da aspettarsi più nulla da Dio, nel senso che ci ha dato tutto nel suo Figlio unigenito. Si è letteralmente e totalmente “dissanguato” per noi, quindi non possiede più nulla di suo che non ci abbia già donato! San Giovanni della Croce, in un famoso passaggio della Salita del monte Carmelo, ricordando questa verità ad un discepolo in attesa vana di altre parole da parte di Dio, affermava:

Chi volesse ora interrogare Dio e desiderasse qualche visione o rivelazione, non solo commetterebbe una follia ma farebbe ingiuria a Dio, perché non terrebbe gli occhi unicamente su Cristo, senza cercare altre cose o qualche novità. Dio potrebbe rispondergli in questo modo: Ti ho già detto tutto nella mia Parola, che è mio Figlio; e ora non ho niente altro da rivelarti che sia più di lui. Fissa il tuo sguardo unicamente su di lui, perché in lui ho tutto deposto; se fissi lo sguardo su di lui, troverai tutto in modo completo perché egli è tutto il mio discorso, tutta la mia risposta, tutta la mia visione e tutta la mia Rivelazione. Dandotelo per fratello, per maestro, per compagno, per riscatto e per premio io ti ho già detto, manifestato e rivelato tutto quanto hai chiesto. Ascoltalo, perché non ho altra fede da rivelare, né altre cose da manifestare. E se per l’addietro parlavo, era per promettere il Cristo, e se gli uomini mi interrogavano, lo facevano solo per domandare e sperare il Cristo. Ma adesso, chi mi interrogasse come accadeva un tempo e volesse da me una risposta, farebbe grande oltraggio al mio Figlio prediletto (La salita del monte Carmelo, 2,22).

Il giubileo è dunque un tempo speciale per riaffermare il riconoscimento e l’accoglienza della presenza – ieri, oggi e sempre – del Signore Gesù nella storia del mondo e nella nostra vita particolare. Siamo “accerchiati” da Dio. Non possiamo che arrenderci a questa sua presenza che bussa incessantemente alla porta della nostra vita! Dunque una prima indicazione forte s’impone al nostro modo di intendere il giubileo: prima forse ci saremmo chiesti “che cos’è il giubileo?”, intendendo una serie di iniziative, di manifestazioni e di eventi. Ora invece, con maggiore intelligenza, la domanda va diversamente posta, e dev’essere questa: “chi è il giubileo?”.
Perché il giubileo è la persona di Gesù Cristo, la sua presenza, la sua azione verso di noi. Di più ancora: il giubileo è l’incontro personale con lui. È l’abbraccio che ci viene da lui riservato senza condizioni e senza costrizioni. È l’invito ad entrare nuovamente in comunione con lui per rialzarci e vivere in pienezza.
Vivere il giubileo significa, in fondo, riconoscere che ancora una volta siamo attesi dal suo amore!

La grande speranza, cuore del giubileo

La caratterizzazione che papa Francesco ha voluto dare a questo primo grande giubileo del terzo millennio è legata alla speranza: egli invita tutti ad essere Pellegrini di speranza. Sembra infatti che il nostro tempo sia in debito di speranza e la richieda in forma specifica.
Il Logo predisposto per il giubileo rappresenta quattro figure stilizzate per indicare l’umanità proveniente dai quattro angoli della terra. Sono una abbracciata all’altra, a rappresentare la solidarietà e la fratellanza che devono accomunare tutti i popoli. La singolare cordata è aggrappata alla croce, fonte unica della nostra gioia. La croce si trasforma verso il basso in un’ancora, che rimanda alla simbologia della speranza, perché offre stabilità durante le condizioni sfavorevoli della vita.
È quindi opportuno far luce ancora una volta sull’essenza della speranza. Benedetto XVI ci ha lasciato a questo proposito la Lettera enciclica Spe salvi del 30 novembre 2007, dedicata appunto a questa virtù teologale. Converrebbe, in preparazione a quest’anno giubilare all’insegna della speranza, riprendere in mano quel prezioso testo. Qui ci basta risentire qualche brevissimo passaggio per cogliere il senso di questa virtù teologale, che oggi siamo chiamati a riscoprire.
La speranza, ci dice Benedetto XVI, è rivolta essenzialmente al futuro, e ultimamente all’eternità. L’uomo vive
di tante piccole speranze che attraversano tutte le fasi della sua esistenza:

Nella gioventù può essere la speranza del grande e appagante amore; la speranza di una certa posizione nella professione, dell’uno o dell’altro successo determinante per il resto della vita. Quando, però, queste speranze si realizzano, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere (Spe salvi, n. 30).

La giovinezza stessa, intesa come cammino verso la terra promessa della maturità e della pienezza della vita, è un tempo privilegiato per la speranza: lì si maturano sogni, si coltivano desideri, ci si getta in avanti con coraggio. Con l’andare del tempo l’uomo si rende conto però che queste speranze rimandano altrove, perché di fronte alla finitezza dell’esistenza, e anche davanti all’esperienza del male, le nostre tante speranze vengono ridimensionate e perfino tradite. Quindi, è vero che

noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere (Spe salvi, n. 31).

Il senso ultimo del giubileo sta proprio qui: riscoprire che Dio è la nostra grande e unica speranza! Riconoscere che proprio in Dio risiedono le ragioni della fecondità e generatività di tutte le speranze che costellano e nutrono la nostra esistenza quotidiana. Si tratta di seguire il filo della speranza, che in ultimo ci porta a Dio, fonte della speranza e della gioia per tutti, nessuno escluso:

In questo senso è vero che chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr. Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno compimento” (cfr. Gv 13,1 e 19,30) (Spe salvi, n. 27).

Se diamo un’occhiata alla Bibbia, scopriamo che la parola “speranza” viene dal termine ebraico tiqvàh, che ha anche il significato di “corda”, di “filo”. Siamo ricondotti ad un episodio biblico preciso: quando gli esploratori entrano a Gerico, vengono ospitati da una prostituta, Raab, che li accoglie, li nasconde e li aiuta a uscire dalla città. In conseguenza di ciò viene siglato tra loro un patto: quando vi sarà la conquista della città, Raab dovrà legare alla finestra una cordicella di filo scarlatto ben visibile per segnalare la sua presenza e quella dei suoi familiari. In questo modo tutti coloro che staranno in quella casa saranno risparmiati dalla morte certa (cfr. Gs 2,1-21).
La cordicella rosso scarlatto è il legame che ricorda il giuramento fatto, che tiene vivo “il filo della speranza”. La speranza è quindi una promessa di vita in un mondo destinato ad essere distrutto. È il legame saldo che tiene unito il tempo con l’eternità. È qualcosa che ci permette di sopravvivere in un periodo di rischio e di pericolo, rimanendo legati a un approdo sicuro.
Un’altra immagine classica della speranza è l’ancora, che non a caso viene utilizzata nel Logo del giubileo 2025. Anche qui la corda gioca un ruolo centrale. L’ancora è in un punto sicuro e sta ben salda, ma è la corda che unisce la nave a questo punto. In base a ciò Paolo può dire con certezza che, pur non essendo ancora salvati, lo siamo già nella speranza: «Nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,24).

Pellegrini di speranza all’inizio del terzo millennio

L’esperienza giubilare – a partire da quando fu istituita per la prima volta da papa Bonifacio VIII con la bolla Antiquorum habet fida relatio del 22 febbraio 1300 – è costituita da tre grandi ingredienti:

  • Il pellegrinaggio verso Roma. È il cammino di preparazione e di avvicinamento, di purificazione e di crescita del desiderio di incontrare il Dio della vita e della speranza;
  • La remissione dei peccati. È il dono specifico del giubileo, quello di cancellare le nostre colpe e tutto ciò che ci separa da Dio, preparandoci ad una vita nuova e santa;
  • L’attraversamento della porta santa. È il segno speciale del giubileo. Passare per la porta santa significa per il pellegrino raggiungere la meta, che è il Signore Gesù, porta aperta verso il cielo.

Andiamo però con ordine e incominciamo dal pellegrinaggio. Dopo l’esperienza della Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona nel 2023, che in fondo è stata anch’essa un’esperienza di pellegrinaggio, siamo ancora una volta invitati a metterci in cammino questa volta verso Roma, per raggiungere e attraversare la porta santa. Per tutte le categorie di persone è previsto un momento giubilare. Per i giovani è stata già confermata un’intensa settimana ricca di iniziative, incontri e proposte (28 luglio - 3 agosto 2025).

Il pellegrinaggio è un’esperienza pastorale e giovanile eccellente da tutti i punti di vista: chiede condivisione di intenti, è basato sulla fiducia reciproca, è un momento di mutuo sostegno. Ci fa popolo di Dio in cammino in cui si va incontro al Signore, in cui ci si avvicina al suo amore. Noi, in quanto cristiani, non siamo dei vagabondi ma dei pellegrini: entrambi camminano, ma i vagabondi non hanno un obiettivo da conquistare o una meta da raggiungere, mentre i pellegrini si muovono verso una direzione ben precisa e con un obiettivo chiaro.

Oggi viviamo una particolare concentrazione ecclesiale sul tema del cammino condiviso. Stiamo con fatica cercando di riscoprire come essere una Chiesa sinodale, ovvero capace di camminare insieme verso il Signore. Non c’è modo migliore che riscoprire questa identità ecclesiale attraverso il pellegrinaggio giubilare!
Il pellegrinaggio è la forma stessa della vita del cristiano e della Chiesa. Siamo cristiani e siamo Chiesa solo e in quanto ci sentiamo e siamo realmente dei pellegrini: insieme in cammino – tutti, nessuno escluso – verso il Padre di tutti, che tutti ci attende nel suo regno. La scrittura in due precisi passaggi dice appunto che in quanto discepoli del Signore non possiamo che essere strutturalmente «stranieri e pellegrini» in questo mondo (Eb 11,13; 1Pt 2,11). La nostra patria è nei cieli e qui non abbiamo una dimora stabile, perché aspettiamo cieli nuovi e terra nuova.

Passiamo alla remissione dei peccati. L’antico giubileo, quello narrato nell’Antico Testamento, determinava un ritorno alla purezza delle origini, alla santità originaria. Tutto ritornava ad essere come doveva essere, segnando una ripartenza radicale. Quello che gli uomini non potevano né volevano fare – ricominciare da una situazione di giustizia che desse a tutti le medesime possibilità – diveniva possibile attraverso il giubileo. Era una grande opportunità per tutti di poter ricominciare a vivere con delle condizioni favorevoli.

Questo spirito che ci riporta all’inizio caratterizza anche il giubileo di oggi, il quale è segnato radicalmente dalla misericordia e dal perdono. Al credente, per un dono gratuito e immeritato, viene rimessa ogni colpa e così egli può ritornare ad un rapporto con Dio non più viziato dal peccato. È l’occasione per incominciare una nuova esistenza all’insegna della vita buona del Vangelo.

La confessione sacramentale è così uno dei grandi segni del giubileo. Esperienza di consegna rinnovata della nostra vita a Dio attraverso un percorso di riconciliazione e penitenza. Prepararsi al giubileo significa essere di nuovo disposti a fare verità nella propria vita, riconoscendo con risolutezza ciò che ci separa da Dio e dal prossimo e rimuovendolo con determinazione.

Diciamo infine qualcosa sulla porta santa. Il segno specifico e singolare del giubileo è l’attraversamento della porta santa. Passando attraverso di essa il pellegrino fa esperienza della grazia e della misericordia, perché si tratta di una delle immagini bibliche che ci riportano all’identità di Gesù. Egli stesso s’intende come una porta:

1“In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
7Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,1-10).

Gesù interpreta se stesso come una porta che permette di passare dalla terra al cielo, dal mondo a Dio, dalla perdizione alla salvezza. Passando attraverso di lui si viene purificati e redenti. È così evocato il necessario passaggio che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato alla grazia. Quindi passare per quella porta significa confessare che Gesù Cristo è il Signore, proclamarlo salvatore universale.

È anche da notare che la porta santa è simbolicamente più ampia delle normali porte. Ciò mostra la particolare abbondanza della grazia che Dio offre nell’anno giubilare. È quindi occasione propizia e speciale, perfino unica e irripetibile, per riconciliarsi con Dio e ricominciare a vivere secondo il Vangelo.

In sintesi possiamo affermare che attraverso l’esperienza giubilare il Signore ci chiede la disponibilità ad entrare in una rinnovata alleanza con lui. Per questo bussa alla porta della nostra libertà e ci chiede di lasciarlo entrare nella nostra vita: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Gesù non è invadente, ma perennemente rispettoso della nostra libertà. Ci attende però sempre con amore, e fa di tutto perché noi facciamo esperienza di questo suo amore.

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