La chiamata di Dio è cosa misteriosa, perché avviene nel buio della fede.
del 01 gennaio 2002
La chiamata di Dio è cosa misteriosa, perché avviene nel buio della fede.
In più essa ha una voce sì tenue e sì discreta, che impegna tutto il silenzio interiore per essere captata.
Eppure nulla è così decisivo e sconvolgente per un uomo sulla terra, nulla più sicuro e più forte.
Tale chiamata è continua: Dio chiama sempre! Ma ci sono dei momenti caratteristici di questo appello divino, momenti che noi segnamo sul nostro taccuino e che non dimentichiamo più.
Tre volte nella mia vita intesi questa chiamata.
La prima determinò la mia conversione a 18 anni. Ero in un villaggio di campagna, maestro elementare.
Venne, in occasione della Quaresima, una missione per il popolo. Vi presi parte, e di essa mi rimase il ricordo di una predicazione antiquata e noiosa. Posso dire che non furono certo le parole a scuotere il mio stato d'indifferenza e di peccato. Ma quando mi inginocchiai dinanzi ad un vecchio missionario, di cui ricordo gli occhi chiari e semplici, per esporre la mia confessione, avvertii nel silenzio dell'anima il passaggio di Dio.
Da quel giorno mi sentii cristiano e constatai che la mia vita era cambiata.
La seconda volta fu a 23 anni. Pensavo a sposarmi; e nemmeno sapevo che poteva esistere qualche altra via per me.
Incontrai un medico che mi parlò della Chiesa e della bellezza di servirla con tutto il nostro essere, pur restando nel mondo. Non so che cosa avvenne in quei giorni e come avvenne; il fatto si è che, pregando in una chiesa deserta dov'ero entrato per sfogare il tumulto dei pensieri che agitavano la mia mente, sentii la stessa voce che avevo udito durante la confessione col vecchio missionario. "Tu non ti sposerai; tu mi offrirai la tua vita. Io sarò il tuo amore per sempre".
Non fu difficile rinunciare al matrimonio e consacrarmi a Dio, perché tutto era cambiato in me; a me sarebbe parso strano innamorarmi di una ragazza, tanto Dio riempiva la mia vita.
Furono anni pieni di lavoro, di passioni, di incontri con anime, di grandi sogni. Gli stessi sbagli - e furono molti - erano dovuti alla violenza di ciò che bruciava dentro di me e che non era ancora purificato.
Passarono molti anni; e molte volte mi sorpresi in preghiera a domandare di risentire il suono di quella voce che tanta importanza aveva avuto per me.
Fu a 44 anni che ciò avvenne; e fu la chiamata più seria della mia vita: la chiamata alla vita contemplativa. Essa si determinò nel più profondo della fede, là dove il buio è assoluto e le forze umane non aiutano più.
Questa volta dovevo dire di sì senza nulla capire: "Lascia tutto, e vieni con me nel deserto. Non voglio più la tua azioni, voglio la tua preghiera, il tuo amore".
Qualcuno, vedendomi partire per l'Africa, pensò ad una crisi di sconforto, di rinuncia. Nulla è più inesatto di ciò. Sono così ottimista per natura e ricco di speranza, che non conosco ciò che sia lo sconforto o la rinuncia alla lotta.
No; fu la chiamata decisiva. E mai la compresi come quella sera dei Vespri di S. Carlo del 1954, quando dissi di sì alla Voce.
"Vieni con me nel deserto". C'è una cosa più grande della tua azione: la preghiera; c'è una forza più efficace della tua parola: l'amore!
E andai nel deserto.
Senza aver letto le Costituzioni dei Piccoli Fratelli di Gesù, entrai nella loro Congregazione; senza conoscere Charles de Foucauld mi misi alla sua sequela.
Mi bastava aver sentito la voce che mi aveva detto: "Questa è la tua strada".
Fu camminando coi Piccoli Fratelli sulle piste del deserto che scoprii la bontà della via; fu seguendo il Padre de Foucauld che mi convinsi che proprio quella era la mia via.
Ma Dio me l'aveva già detto nella fede!
Ma faccio bene a scrivere queste cose?
Quando giunsi a El Abiod Sidi Seik per il noviziato, il mio maestro mi disse con la calma più perfetta d'un uomo che aveva vissuto vent'anni nel deserto: "Il faut faire une coupure, Carlo".
Io capii cosa voleva dire quella frase e decisi di fare il taglio anche se doloroso.
Avevo nella mia sacca conservato un grosso quaderno su cui erano annotati gli indirizzi dei miei vecchi amici: ce n'erano migliaia.
Il Signore nella sua bontà non m'aveva mai lasciato mancare la gioia dell'amicizia e su un vero fiume d'amore aveva navigato la barca della mia vita.
Se restava in me una sofferenza nascosta era certamente quella di non poter - al momento della mia partenza per l'Africa - parlare a ciascheduno di loro, spiegare il motivo dell'abbandono, dire che obbedivo ad una chiamata chiara di Dio e che, anche se da un'altra trincea, avrei continuato a militare con loro nel campo dell'apostolato.
Ma bisognava fare la famosa "coupure"ed io la feci con coraggio e con una grande fiducia in Dio.
Presi l'indirizzario che era per me come l'ultimo legame al passato ed andai a bruciarlo dietro una duna durante una giornata di ritiro.
Rivedo ancora i resti anneriti del quaderno trasportati lontano dal vento del Sahara.
Ma bruciare un indirizzo non significa distruggere l'amicizia, né questo mi era richiesto; anzi...
Mai ho amato e pregato tanto per i miei vecchi amici come nella solitudine del deserto. Ne rivedevo i volti, ne sentivo i problemi, le sofferenze acuite dalla distanza.
Essi erano diventati per me come un gregge che mi sarebbe appartenuto per sempre e che io dovevo condurre con me ogni giorno alla fonte della preghiera.
Quasi fisicamente li sentivo attorno a me quando entravo nella chiesa di stile arabo a El Abiod o, più tardi negli eremitaggi famosi costruiti dallo stesso padre de Foucauld a Tamanrasset, all'Assekrem.
Pregare era diventato il mio maggiore impegno, la mia più dura fatica quotidiana e avevo per vocazione cosa significasse "portare gli altri" nella nostra preghiera.
Ebbene: a distanza di anni posso dire di aver mantenuto il mio impegno, mentre s'è fatta sempre più chiara la certezza che a pregare non si perde il proprio tempo e che non esiste forma più adatta per aiutare coloro che amiamo.
Rimane il problema dell'indirizzario che non posseggo più, ma questo non ha molta importanza perché esistono altri mezzi per raggiungere gli amici.
Ecco, vorrei dare a loro l'appuntamento in uno dei tanti angoli meravigliosi del Sahara verso la sera al calar del sole, e ritrovarci tutti come ci siamo trovati allora in quella sera famosa del settembre 1948 nella piazza di S. Pietro. Ricordate?
Qui non ci sarebbe bisogno di fiaccole, tanto il cielo è chiaro di stelle.
Ci sederemmo sulla sabbia e trascorreremmo la notte a raccontarci la vita di questi anni, le tappe compiute, le prove subite.
Penso che la stella del mattino ci troverebbe ancora a conversare.
Per conto mio, ho voluto annotare qui in queste "lettere dal deserto" le cose che direi, se mi fosse data una simile occasione, e che rappresentano certamente una parte di me stesso.
Niente di sistematico, niente di importante. Alcune idee maturate nella solitudine e gravitanti attorno ad un'attività che è stata senza alcun dubbio il più grande dono che mi ha fatto il Sahara: pregare.
Se ho fatto bene o male a scrivere, lo direte voi, i miei cari vecchi amici; ma sento che se non altro la cosa avrà servito a ripensare con esperienza nuova i problemi che sono stati alla base della nostra amicizia.
Vostro piccolo fratello
Carlo Carretto
Carlo Carretto
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