L'ora di religione può diventare un paradigma per tutti gli insegnanti. I ragazzi desiderano conoscere, non vogliono scorciatoie...
del 25 gennaio 2017
L'ora di religione può diventare un paradigma per tutti gli insegnanti. I ragazzi desiderano conoscere, non vogliono scorciatoie...
Ho sessant'anni. Quando frequentavo il liceo, negli anni Settanta, l'ora di religione era obbligatoria e a tenerla era quasi dappertutto un prete, tanto che almeno dalle nostre parti non si diceva «l'insegnante di religione» ma «il prete di religione».
Per quanto mi riguarda, niente poteva essere meno interessante della lezione di religione.
I preti, almeno dalle nostre parti, cercavano di blandire classi di studenti molto politicizzati (allora si diceva così) con discorsi fumosi che attingevano alla sociologia e all'antropologia, e toccavano l'argomento religioso così alla larga che spesso non ci si arrivava nemmeno se non con interrogativi in stile dopoguerra del tipo «che ne è dell'uomo nell'epoca nucleare?», «quale tipo di uomo si profila all'orizzonte?».
I preti avevano paura di parlare di Gesù Cristo. Il massimo che riuscivano a fare, almeno dalle nostre parti, era criticare la Chiesa e il Papa.
Nessuno ascoltava quelle lezioni. Il prete di religione usciva poco soddisfatto dalla nostra aula per entrare in un'altra aula e iniziare una nuova lezione poco soddisfacente. E pensare che eravamo tutti rivoluzionari, tutti comunisti, tutti arrabbiati, ma eravamo anche tutti cattolici.
Quando venne fatta la riforma del Concordato (mi sembra di ricordare Bettino Craxi in jeans alla firma del documento) io avevo già due figli. L'ora di religione divenne facoltativa mentre le nostre scuole cominciavano a riempirsi, a partire dalle elementari, di piccoli musulmani e cinesi. I presidi e i direttori didattici, almeno dalle nostre parti, toglievano i crocifissi dalle aule e le espressioni «vacanze di Natale» e «vacanze pasquali» si trasformarono in vacanze rispettivamente «invernali» e «di primavera». I bambini che frequentavano il catechismo sapevano tutto su Halloween e niente sulla Pasqua, e pretendevano che tra i sacramenti venisse introdotto anche il divorzio.
Ma oggi che gli insegnanti di religione sono quasi tutti laici scopriamo che l'88% degli studenti chiede di partecipare all'ora di religione, e che il gradimento di quest'ora è altissimo.
Non so se durante quest'ora tutti gli insegnanti parlino effettivamente di religione, però sono certo che, forse per effetto di tante tragedie prodotte anche (e sottolineo anche) dal fanatismo religioso, il primo desiderio dei ragazzi è quello di conoscere che cosa sono la religione, la fede, o più radicalmente di sapere cosa significa la parola «Dio».
La fede infatti non è un sentimento ma un atto di conoscenza, esattamente come sappiamo che due più due fa quattro e che l'America esiste, anche se in questo istante non la vediamo.
Dalle nostre parti, ossia a Milano, per insegnare religione nella scuola occorre ottenere un titolo di studio compatibile, come la laurea in Scienze religiose presso la facoltà teologica. Bisogna conoscere la dottrina cattolica, la dottrina sociale, il pensiero dei Padri della Chiesa e quello dei Dottori. Ci vuole, insomma, conoscenza per trasmettere conoscenza.
Così l'ora di religione può diventare un paradigma per tutti gli insegnanti. I ragazzi desiderano conoscere, non vogliono scorciatoie perché la generazione che li ha preceduti è testimone dei disastri che si fanno quando si cercano troppe scorciatoie.
Questi sono i ragazzi di oggi, e chiedono soprattutto rispetto. Non possiamo tuonare, che so, contro il bullismo e poi saltare lo studio di Manzoni perché i Promessi sposi «sono noiosi» (succede spesso).
I dati diffusi dalla Cei ci ricordano che la trasmissione della conoscenza è un fatto fondamentale per l'esistenza della società, e ci ricordano anche - e scusate se è poco - che non si vive da persone serie senza affrontare, seriamente, la questione di Dio. Quale che sia la nostra decisione.
Luca Doninelli
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