La fede e la ragione

Si dà quasi per scontato che per ragionare non serve credere, e che credere è rinunciare a ragionare. È triste constatare che in questo conflitto non ci sono vincitori: la ragione è ridotta a calcolo, la fede a salto nel buio, entrambe risultano incapaci di cogliere la verità.

La fede e la ragione

da Teologo Borèl

 

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Affrontiamo in questa seconda catechesi l’importantissimo tema del rapporto fra fede e ragione. È un fatto che appena si parla di religione si finisce sempre a discutere su religione e ragione o fede e scienza, e passa immancabilmente l’idea che le due grandezze sono incompatibili o il loro rapporto problematico. È evidente che abbiamo sulle spalle la pesante eredità della cultura moderna, che ci ha abituati a pensare fede e ragione come due grandezze esteriori e alternative: esteriori, perché la ragione sarebbe il campo dell’evidenza e dell’oggettività, mentre la fede quello dell’inevidenza e della soggettività; alternative, perché dove c’è una non ci può stare l’altra. Si dà quasi per scontato che per ragionare non serve credere, e che credere è rinunciare a ragionare. È triste constatare che in questo conflitto non ci sono vincitori: la ragione è ridotta a calcolo, la fede a salto nel buio, entrambe risultano incapaci di cogliere la verità. Il reciproco discredito ha impoverito entrambe, danneggiando sia credenti che non credenti: la ragione, limitandosi al campo del visibile, non sa comprendere il mondo degli affetti, e la fede, assegnata al campo dell’invisibile, non realizza una forma di conoscenza attendibile. Dice bene Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et Ratio: «la ragione, privata dell’apporto della rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua mèta finale. La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale» (FR 48).

Di fatto, nel nostro tempo, alla crisi della fede fa riscontro il sonno della ragione. L’esaltazione della ragione e l’arroccamento della fede hanno indebolito l’una e l’altra, rendendole reciprocamente inservibili. La ragione, dimenticando il proprio limite creaturale, ha preteso di porsi come criterio di giudizio nei confronti della fede, e la fede, per difendere il proprio specifico, ossia il riferimento a Dio e alla Sua rivelazione, è diventata culturalmente irrilevante. Da qui il «divorzio fra fede e cultura» che Paolo VI additava come il male principale del nostro tempo. Inoltre la ragione, concentrandosi sul conoscere piuttosto che sull’essere, invece di sottolineare la capacità della ragione di conoscere la verità, «ha preferito sottolineare i suoi limiti e i suoi condizionamenti», ma così «la legittima pluralità di posizioni ha ceduto il passo ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono» e riducendo ogni conoscenza a opinione: anche la religione, invece di essere riconosciuta come rapporto con l’assoluto, viene svalutata a grandezza culturale (FR 5). Fra le conseguenze più vistose vi è il capovolgimento del rapporto fra scienza e fede: la scienza, il cui sapere è per se stesso riduttivo, appare come senz’altro affidabile, mentre la religione, che riguarda il senso profondo delle cose, è ritenuta inevitabilmente inaffidabile. In realtà, è bene ricordare che «la verità viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l’abbandono fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l’autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria vita a un’altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi» (FR 33). Ad ogni modo, ammonisce Giovanni Paolo II, una ragione e una fede deboli non fanno né il proprio gioco né il gioco l’una dell’altra: «è illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Similmente, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità dell’essere» (FR 5). Alla ragione e alla fede non fa bene una figura “debole”, ma una figura “umile”: la ragione ha interesse a tener conto che anch’essa, come ogni realtà creata, è ferita e bisognosa di redenzione; e la fede non deve mai dimenticare che la Rivelazione che la fonda si è attestata nella sapienza della croce: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti… ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-28)

Tra l’altro la separazione di fede e ragione è globalmente responsabile di quella che Benedetto XVI ha chiamato “emergenza educativa”, per la quale «le giovani generazioni sono esposte alla sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento» (FR 6), e che si evidenzia particolarmente nella scissione fra razionalità e affettività di cui soffrono i nostri ragazzi: colpiti da stimoli eccessivi, realizzano identità fragili, e invasi da troppe informazioni, stentano a raggiungere una visione unitaria delle cose. Urge ritrovare, come si è espresso il Comitato della Conferenza Episcopale Italiana sul tema della sfida educativa, il duplice bene di “una razionialità affettiva e di un’affettività ragionevole”. Del resto, tutti i grandi maestri spirituali hanno insegnato la persona matura si manifesta nell’equilibrio di raziocinio e immaginazione, quando gli affetti alimentano pensieri buoni e i pensieri orientano affetti stabili.

A ben vedere, la figura di una ragione separata dalla fede è implausibile, totalmente incapace di rendere conto dei modi con cui l’uomo si rapporta alla realtà e agli altri, dei modo con cui conosce e ama. È facile constatarlo: fidarsi di qualcuno senza controllare nulla, o pretendere di controllare tutto senza fidarsi di nessuno, sono modi semplicemente scadenti di stare al mondo. Quando in una relazione non si usa la ragione, facilmente si scade nella manipolazione e nel conflitto, e quando manca la fiducia, si cade allora nel sospetto e nella paura. La vita dell’uomo intreccia sempre affidamenti e accertamenti: può farlo più o meno bene, ma sempre l’uomo tende ad affidarsi e sempre ci tiene ad accertarsi. A riprova, difficilmente l’uomo si accontenta di sole promesse, e mai lo convincono i puri ragionamenti. A tutti piace invece incontrare persone ragionevoli e affidabili. Anche Dio è dello stesso parere: nel documento del Concilio sulla Parola di Dio si dice infatti che «l’economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto» (DV 2). Insomma, la ragione non è estranea all’ambito della fede e la fede non è meno che una forma di conoscenza: «esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare» (FR 8).

Ora, la bella notizia del Vangelo è che la fede è insieme luce e forza, conoscenza e amore. Certo, la fede è fiducia illimitata in Dio, ma Dio neanche si sogna di mortificare la ragione e la libertà dell’uomo. Al contrario, la fede in Dio rende intelligenti e liberi, partecipi della sapienza e della bontà di Dio! Infatti, quando Gesù chiama i discepoli a seguirlo, non chiede di rinunciare alla ragione e alla libertà, ma dicendo loro «venite e vedete» (Gv 1,39), le richiede espressamente! Nella fede, «intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale», affinché il soggetto possa compiere atti pienamente liberi e personali (FR 13). Tanto che Gesù, quando chiede di credere in Lui non lo dice a scapito del pensare e del decidere di sé – è ciò che ci rende uomini! – ma proprio a loro vantaggio: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,11). In pratica, per maturare nella fede, occorre guardarsi bene dall’opporre testa e cuore, riflessione e devozione! In breve: no al secolarismo, no allo spiritualismo. La Chiesa, alla quale è affidata la «diaconia della verità» (GS 16), non smette di ripetere che sia la ragione che la fede sono capaci di verità e concorrono al suo ritrovamento: «beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti» (Sir 14,20) E garantisce che non solo la fede fa bene alla ragione, in quanto le impedisce di esaltarsi (razionalismo) e di limitarsi (irrazionalità), ma anche che la ragione fa bene alla fede, in quanto le evita di scadere in assenso cieco (fideismo) e in costrizione (fondamentalismo). Da qui la duplice formula classica del credo ut intellegam e intellego ut credam: il credere aiuta a capire e il capire aiuta a credere. Ciò si fonda sul fatto che la verità è una sola, che riguarda la mente e il cuore, e che Dio è l’unico termine della nostra ricerca di verità e del nostro desiderio di bene: «il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce l’intelligibilità e la ragionevolezza dell’ordine naturale delle cose, è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo» FR 34).

Come vivere gli insegnamenti di questa catechesi?

Ci permettiamo un paio di suggerimenti:

1. A fronte di una generazione che ha vissuto le pratiche della fede, ma non ha saputo renderne ragione alle giovani generazioni, il primo impegno è quello di appassionarsi alla verità della fede e alla sua intima ragionevolezza, in modo tale da «essere sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. E questo con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,15). Ciò significa formazione e buone letture, obbedienza ai pastori e coraggio della testimonianza, retta dottrina e retta condotta: perché si capisce davvero soltanto ciò che si vive.

2. A fronte di una ragione ferita dal peccato, che oscilla fra pretese smisurate e caduta di ogni pretesa, il secondo impegno è quello che Benedetto XVI ha felicemente espresso nell’invito ad «allargare gli spazi della ragione». Questa è certamente un’impesa complessa, ma da parte del popolo di Dio richiede preghiera e adorazione, immersione e contemplazione delle cose di Dio, supplica e intercessione per chi ha il compito di assicurare, approfondire e trasmettere in maniera integra le verità della nostra fede: il Papa, i Vescovi, i teologi, i predicatori e i catechisti.

Don Roberto Carelli

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