Oggi si parla poco della vita eterna, della gioia del Paradiso e dell'orrore dell'inferno, non senza gravi danni nel cuore dei credenti. Don Bosco, invece, ne parlava senza alcun timore, senza reticenze e senza attenuazioni.
La fede che cammina nella speranza e opera nella carità è il vero miracolo che unisce la terra e il cielo. Credere è guardare il visibile alla luce dell'invisibile, attraversare la storia nella prospettiva dell'eternità, guardare le cose del mondo dal punto di vista di Dio, nominare le realtà della terra nella forza della Parola, vedere la vitalità e la fecondità di Dio che opera nella debolezza mortale delle creature. Il credente ne fa esperienza fin da ora, perché la vita di grazia non solo è orientata alla gloria, ma è già inizio della gloria. Grazia e gloria si rapportano come il già e il non ancora, come la caparra e il possesso, come l'anticipo e il compimento, come l'inizio e la pienezza, come l'aurora e il pieno giorno, come il tempo del cammino, della lotta, e il tempo del riposo, della vittoria. Esemplare è il modo di esprimersi di Giovanni: "quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (1Gv 3,1-2).
Ecco dunque l'ultima verità che vogliamo meditare in quest'anno dedicato al miracolo della fede: la vita terrena è fatta per la vita eterna. Qui viene in luce il carattere paradossale e sovversivo della fede, quel capovolgimento di mentalità che si attua in chi crede e per il quale la fede è anzitutto opera di conversione. Chi crede ha infatti le proprie radici e il proprio baricentro interiore in cielo, non sulla terra: "se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra" (Col 3,1-2). D'altra parte chi crede ha i piedi per terra proprio perché ha il cuore in cielo, e riesce ad essere cittadino del mondo proprio perché ha una dimora celeste: "la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso" (Fil 3,20).
La fede nella vita eterna, inoltre, non distoglie dall'impegno storico, ma infonde un sano distacco dalle cose del mondo e un grande coraggio in tutte le difficoltà: il credente è convinto che "chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Mc 8,35), perché ha la certezza, garantita dalla Pasqua del Signore, che "se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli" (2Cor 5,1). Davvero, lo sguardo rivolto in cielo non fa perdere aderenza alla terra, ma rende il credente molto concreto in tutte le sue valutazioni: "che giova infatti all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai dare un uomo in cambio della propria anima?" (Mc 8,36-37). È paradossale, ma è così: senza la vita eterna, si perde anche la vita terrena, che non riuscirà a superare la barriera della morte, né avrà abbastanza motivi per affrontare gli ostacoli della vita; mentre al contrario, chi crede otterrà la vita eterna e insieme ad essa sperimenterà cento volte tanto i beni della terra (cfr. Mc 10,30).
In definitiva, la fede nella vita eterna libera dalle paure e riempie il cuore di gioia: per questo il Signore ammonisce di "non temere coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla", ma "colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna" (Lc 12,4-5), e invita i suoi discepoli a rallegrarsi non per i successi terreni, ma perché i loro nomi "sono scritti in cielo" (Lc 10,20). La gioia della fede può essere così grande, che la persecuzione a motivo della fede si trasfigura in beatitudine: "beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli (Mt 5,11-12).
Il carattere intimamente escatologico della fede, che ci fa vivere sulla terra radicati e orientati al cielo, richiede almeno tre approfondimenti.
1. Occorre anzitutto chiarire che la "vita eterna" non va intesa banalmente come durata indefinita, vita che dura per sempre, vita non più soggetta alla morte. Tanto è vero che l'eternità nel senso della durata vale sia per il paradiso che per l'inferno! La vita eterna è essenzialmente la qualità della vita di Dio, è la comunione d'amore trinitaria partecipata all'uomo. il senso umano della vita non si riduce né all'esistere né al sopravvivere: vivere è amare, è maturare nell'amore, è incamminarsi verso il Paradiso. Da qui il senso profondo delle famose parole di sant'Ireneo: "la gloria di Dio è l'uomo vivente, e la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio".
2. La fede non è soltanto sapere che la vita eterna esiste ed è il nostro destino, ma è quell'atto, quella disposizione del cuore e quella virtù che ci fa entrare realmente nella vita eterna. Su questo punto le parole del Signore Gesù sono inequivocabili e non vanno minimizzate: "chi crede in me ha la vita eterna" (Gv 6,47), e "anche se muore, vivrà" (Gv 11,25). Qui si vede bene come la fede sia il fondamento della speranza e il motore della carità: la promessa della vita eterna, che nella fede è già realtà, sostiene infatti il cammino, sorregge nelle prove, infonde coraggio alla testimonianza; inoltre assicura che la storia ha un senso e che tutto quanto è seminato nell'amore, pur fra le lacrime, non è inutile e non è destinato a cadere nel nulla. Da qui il realismo delle parole di Gesù, il quale afferma che ogni atto d'amore ha un peso teologale, un valore assoluto, incancellabile: "ogni volta che avete fatto questo, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).
3. Circa la vita eterna, la verità più bella e più difficile da interiorizzare, in quanto sorpassa nettamente sia l'idea della durata interminabile che quella del premio finale, è che la vita eterna è Gesù stesso! Cerchiamo di comprendere: Gesù è il Figlio, colui che il Padre ha eternamente generato e al quale il Padre ha donato ogni cosa, tutto se stesso e tutto il mondo: "come il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso" (Gv 5,26) e "mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18). Dunque la vita eterna non è qualcosa, ma qualcuno: è proprio Gesù, Lui in noi e noi in Lui. Noi abbiamo la vita eterna in quanto e quanto più siamo in comunione con Lui! E perdiamo la vita quando e quanto più ci allontaniamo da Lui. Anche qui le parole del Signore non sono riducibili a semplici metafore: "io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14,6). Gesù è talmente identico alla vita eterna, che quando chiede a Marta, sorella di Lazzaro, se crede nella risurrezione, ed ella gli risponde che sì, alla fine si risorgerà - mostrando così di non aver ancora capito bene quanto sia radicale il dono di Gesù - Gesù le precisa con grande chiarezza che la vita eterna si rende presente proprio nella sua persona: "io sono la risurrezione e la vita" (Gv 11,25).
Se la fede unisce la terra al cielo operando nella carità e mirando alla vita eterna, si comprende come mai le due più grandi insistenze spirituali e pedagogiche di don Bosco fossero la moralità e la gioia, la prima intesa soprattutto come purezza - perché solo i puri di cuore vedono Dio - e la seconda come paradiso - perché perdere il paradiso è perdere tutto. È significativo che fin dall'esordio del Giovane Provveduto, il libro di preghiera che don Bosco scrisse per i ragazzi, il programma si presenta come un chiaro invito a vivere coi piedi per terra e col cuore in cielo: "buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del cielo". E altrettanto chiari sono gli avvertimenti intorno ai due principali inganni con cui il demonio cerca di allontanare i ragazzi da Dio: "il primo è far loro venir in mente che il servire al Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere", e il secondo è suggerire la falsa "speranza di una lunga vita colla comodità di convertirsi nella vecchiaia od in punto di morte". Come si vede, il primo inganno corrompe la moralità, perché orienta il cuore dei giovani alle gioie terrene, il secondo allenta la speranza, perché distoglie i giovani dalle gioie celesti.
Oggi si parla poco della vita eterna, della gioia del Paradiso e dell'orrore dell'inferno, non senza gravi danni nel cuore dei credenti. Don Bosco, invece, ne parlava senza alcun timore, senza reticenze e senza attenuazioni, suggerendo così al tempo stesso la serietà drammatica della vita terrena e la gioia consolante della vita eterna, la terribile possibilità di perdere Dio e se stessi, e l'entusiasmante obiettivo di guadagnare Dio, e in Lui ogni altra cosa. Un esempio per tutti: "due sono i luoghi che nell'altra vita stanno a noi preparati. Un inferno per li cattivi, dove si patisce ogni male. Un Paradiso per li buoni ove si godono tutti i beni. Non c'è cosa che tormenti maggiormente i dannati nell'inferno, che l'aver passato in ozio quel tempo, che Dio aveva loro dato per salvarsi. Al contrario non c'è cosa che più consoli i beati in Paradiso, quanto il pensare che un po' di tempo impiegato per Dio loro procacciò un bene eterno". Qui l'attesa e la vigilanza, lo sguardo contemplativo e l'impegno attivo, sono una cosa sola.
don Roberto Carelli
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