Nei primi tre canti dell'Inferno, Dante presenta la sua straordinaria pedagogia. Tutti noi abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro...
del 01 marzo 2017
Nei primi tre canti dell’Inferno, Dante presenta la sua straordinaria pedagogia. Tutti noi abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro...
Tutti noi nella vita, come Dante all’inizio della cantica dell’Inferno, abbiamo pensato di poter fare a meno di un maestro, vorremmo contare solo sulle nostre forze e sulle nostre energie e salire da soli quel «colle luminoso» che vediamo davanti a noi, che rappresenta la via buona, la verità. Dante inizia, così, a salire da solo. Tre fiere si presentano davanti a Dante e l’ultima, la lupa, lo risospinge «là dove ‘l sol tace». Un imprevisto è la sola speranza, l’incontro gratuito e insperato che ci salva la vita. Scrive il sommo poeta: «Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,/ dinanzi a li occhi mi si fu offerto/ chi per lungo silenzio parea fioco». Quel verbo «offerto» indica che in quella situazione di crisi e di difficoltà viene donato al Dante viator un incontro imprevisto, immeritato, gratuito. Non sono i suoi meriti, le sue capacità a salvarlo. Ciò che lo salva è la sua capacità di domandare aiuto, la sua mendicanza che subentra all’iniziale desiderio di totale autonomia tanto che grida: «Miserere di me […]/ qual che tu sii, od ombra od omo certo». La lupa, ovvero la cupidigia, il desiderio di essere sempre più potenti, più prestigiosi, più ricchi, non permette ad alcuno di intraprendere la via del bene e della felicità, «ché […] non lascia altrui passar per la sua via,/ ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide». Questa bestia opererà sulla Terra, finché non giungerà il veltro che la ricaccerà all’Inferno, là da dove proviene. Ecco la prima profezia dantesca, quella del veltro, un personaggio storico che nascerà «tra feltro e feltro» (in povertà o tra Feltre e Montefeltro?) oppure lo stesso Cristo che ritornerà nella gloria (parusia). Non intendiamo qui soffermarci su questa profezia che verrà ripresa alla fine del canto XXXIII del Purgatorio (come dimostra Barbara Reynolds nel suo Dante). Certo è che, dopo le parole di Virgilio, vinta ogni paura, Dante viator appare propenso a partire tanto da esclamare: «Poeta, io ti richeggio/ per quello Dio che tu non conoscesti,/ a ciò ch’io fugga questo male e peggio,/ che tu mi meni là dov’or dicesti,/ sì ch’io veggia la porta di san Pietro/ e color cui tu fai cotanto mesti». Allora il maestro Virgilio si muove e il discepolo lo segue.
Può bastare un discorso per convincere un uomo, per sfrondare tutte le paure, per suscitare un impavido desiderio di giungere quanto prima alla meta? Tutti noi capiamo che le parole sono insufficienti, di fronte alle difficoltà della vita, ma, poi, spesso ci accontentiamo di fare prediche, di tenere discorsi e ci stupiamo se l’interlocutore non apprende subito la lezione e non si muove.
All’inizio del canto II dell’Inferno appare chiaro che, una volta che Dante è rimasto a riflettere e pensare prima di partire, la paura prende il sopravvento. «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno/ toglieva li animai che sono in terra/ de le fatiche loro«. Dante si rende conto che affronterà da solo «la guerra/ sì del cammino e sì de la pietade». Il peso delle scelte che prendiamo è tutto nostro, la scelta della scuola, dell’università, del matrimonio, delle amicizie, del lavoro. «Decidere» significa etimologicamente «tagliare via, escludere tutto il resto» per scegliere una sola cosa. Per questo motivo ogni scelta è drammatica, se vissuta con consapevolezza. Per questa stessa ragione «vita militia est», come sostenevano i primi cristiani, la vita è una guerra, come scrive Dante, una guerra non contro gli altri, contro il prossimo, ma una guerra contro il proprio peccato, contro le paure, le tentazioni, la viltà. Per questo motivo, Dante ha appena professato la disponibilità a seguire il maestro, ma poche ore più tardi, siamo sul far della sera, inizia ad accampare scuse per non partire. In sintesi disquisisce in questi termini con Virgilio. Nell’Eneide Enea è sceso agli Inferi per incontrare il padre Anchise; la sua catabasi genera in lui la consapevolezza di quanto sorgerà in Italia, ovvero la città di Roma, che diventerà capitale della Repubblica e dell’Impero romano e sede della Curia papale. Anche san Paolo è stato rapito al terzo Cielo, come lui stesso racconta, per rafforzare quella fede «ch’è principio a la via di salvazione». Dante non è né Enea né tantomeno san Paolo e non si reputa degno di sostenere quel viaggio che hanno affrontato i due grandi benefattori dell’umanità. Il poeta confida che il maestro possa intendere le sue motivazioni meglio di quanto lui abbia espresso. E in effetti è così. Virgilio spiega al discepolo che la sua anima è presa da viltà, da paura, da pusillanimità, come quando una persona è immobilizzata perché pensa di vedere una bestia feroce, mentre in realtà ha davanti a sé semplicemente un’ombra.
A questo punto per spronare di nuovo il discepolo al viaggio, per allontanare ogni paura, Virgilio spiega le ragioni per cui lui, Dante, non debba aver paura. Nel Cielo si sono mosse tre donne benedette per salvarlo. Per la precisione la prima che si è resa conto delle difficoltà di Dante è la Madonna che si è recata da Santa Lucia (patrona della vista e santa a cui Dante è molto devoto, probabilmente, si narra, perché, ammalato agli occhi, fu guarito da lei). La Siracusana raggiunge Beatrice chiedendole di intervenire. La donna amata da Dante, beata e bella, dagli occhi splendenti più che la stella, scende dal Paradiso nel Limbo e chiede a Virgilio di andare in soccorso a colui che lo reputa maestro di vita e di poesia. Udito tutto ciò, Dante esclama: «Oh pietosa colei che mi soccorse!/ e te cortese ch’ubidisti tosto/ a le vere parole che ti porse!/ Tu m’hai con disiderio il cor disposto/ sì al venir con le parole tue,/ ch’i’ son tornato nel primo proposto./ Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:/ tu duca, tu segnore e tu maestro».
Insomma, alla fine del canto II, il viaggio non è ancora iniziato, ma Dante sembra essere convinto di intraprenderlo. Ma le sorprese non sono finite. Infatti, dinanzi all’epigrafe posta sulla porta dell’Inferno (incipit del canto III) ritornano le antiche paure. Le parole incise sono cupe, orride: «Per me si va ne la città dolente,/ per me si va ne l’etterno dolore,/ per me si va tra la perduta gente./ Giustizia mosse il mio alto fattore;/ fecemi la divina podestate,/ la somma sapïenza e ‘l primo amore./ Dinanzi a me non fuor cose create/ se non etterne, e io etterno duro./ Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».
Di fronte alla paura di Dante, Virgilio lo prende per mano con lieto volto e lo introduce dentro «a le secrete cose». Nei primi tre canti dell’Inferno, Dante presenta la sua straordinaria pedagogia. Un discorso non può avvincere e convincere, non è sufficiente neanche conoscere le ragioni e le motivazioni. Dante non avrebbe intrapreso il viaggio senza la compagnia e la guida lieta e rassicurante di Virgilio. Il ragazzo e l’adulto hanno bisogno nel viaggio della vita di una compagnia e di una speranza (il lieto volto, che rappresenta la certezza che vale la pena intraprendere il viaggio, cha c’è una meta bella, che il destino è buono e positivo). Sant’Ignazio di Antiochia scriveva: «Si educa con quel che si dice, si educa meglio con quel che si fa, ma ancor di più con quel che si è». Si cammina nel viaggio con una compagnia, con un maestro, un testimone della bellezza e della verità incontrate.
Il tema della viltà occupa tutti i primi tre canti dell’Inferno. Non si può vivere se si è bloccati dalla paura. Occorrono, invece, entusiasmo e speranza. Per questo non sarà un caso che le prime anime che Dante incontra nel cammino siano quelle degli ignavi, i pusillanimi, che non sono neppure degni di stare all’Inferno. Hanno una collocazione tutta loro, l’Antiinferno. Costoro, che mai non hanno vissuto, perché mai non hanno scelto, una volta morti devono inseguire un’insegna, che mai non ha posa. Punti da mosconi e vespe, loro che nella vita non hanno mai inseguito un ideale e non avrebbero mai offerto il proprio sangue per un Ideale, ora devono versarlo per i vermi che sono in Terra. Il monito di Dante auctor è forte e riguarda tutti noi. Ciascuno di noi, infatti, può rischiare di non prender posizione, di non scegliere, sopraffatto dall’illusione che si possa stare tranquilli, anche senza credere in nulla, anche senza scoprire una ragione per cui valga la pena intraprendere il viaggio della vita.
Nell’ultima parte del canto III assistiamo alla scena dell’incontro con Caronte. Presso la riva dell’Acheronte sono assiepate tantissime anime che aspettano di salire sulla barca del traghettatore, mutuato dall’Eneide virgiliana, così come molti altri personaggi e custodi dell’Inferno saranno d’ora innanzi sovente ripresi dal poema epico latino. Quando vede Dante, Caronte lo rimprovera e gli profetizza che non finirà all’Inferno: «E tu che se’ costì, anima viva,/ pàrtiti da cotesti che son morti./ […] Per altra via, per altri porti / verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convien che ti porti». Virgilio allora rabbonisce il nocchiero dagli occhi infuocati e iniettati di sangue: «Caron, non ti crucciare:/ vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare».
Giovanni Fighera
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