Monsignor Petros Mouche, arcivescovo siro-cattolico di Mosul, racconta la cronaca di un martirio...
Non c’è emozione negli occhi di monsignor Petros Mouche. Il suo racconto è asciutto. Senza aggettivi. Senza pause. È la cronaca di un martirio. È la fotografia di un genocidio. «A Mosul nel 2003 i cristiani erano 50mila, nel 2014 tremila, oggi non ce n’è più nemmeno uno». Una pausa leggera. Poi Mouche, dal 2011 Arcivescovo siro-cattolico di Mosul, ripete quell’ultimo dato e lo arricchisce di un’annotazione che fa pensare: «Ufficialmente non ce n’è più nemmeno uno e il mondo non ha ancora capito».
Parla in francese e, di tanto in tanto, stringe il grande crocifisso di ferro che porta al collo legato a una lunga catena. È la storia di una persecuzione. Di donne cristiane che si coprono il capo con il velo per confondersi con le donne musulmane. Di sacerdoti uccisi. Monsignor Mouche li ricorda sottovoce: monsignor Faraj Rahho, Arcivescovo caldeo a Mosul, rapito e ucciso nel 2008; padre Ragheed Ganni ucciso un anno prima perché si era rifiutato di chiudere la chiesa di cui era parroco. La prima domanda al sacerdote è netta, provocatoria: odia i miliziani dell’Is, odia i responsabili di questa persecuzione? «No, non li odio. Prego perché Dio possa cambiare il loro cuore. Il cuore dei miliziani dello Stato islamico».
Un’altra pausa. «E prego anche perché i cristiani iracheni possano perdonare. Possano ritrovare la pace. E possano tornare a vivere e a pregare nelle loro terre».
Siamo a Trastevere, nel cuore di Roma, nella sede italiana di Aiuto alla Chiesa che soffre. Monsignor Mouche è qui perché i cristiani in Iraq «non possono essere abbandonati, perché hanno bisogno di un sostegno morale e materiale. Di donazioni e di media capaci di raccontare». Per farlo parte da una data: la notte tra il 6 e il 7 agosto del 2014. Le milizie dell’Is occupano Qaraqosh, una città a nord dell’Iraq. Una città di cristiani. La città dove è nato settantadue anni fa. «Migliaia di famiglie hanno lasciato tutto. Anche io sono scappato portando via solo il passaporto. Abbiamo passato giorni per strada. Molti dormivano nei cortili delle chiese, molti nei palazzi abbandonati. La sofferenza si legava alla preghiera, il dolore alla fede».
E ora? «Sono passati dieci mesi è tutto è terribilmente complicato. La mia comunità soffre. Non ha cibo, non ha denaro, non ha assistenza sanitaria. E soprattutto non ha una terra. Una parte è dispersa in 57 luoghi diversi del Kurdistan. Ci vuole forza per andare avanti. Ci vuole fede».
Parla del suo impegno monsignor Mouche. Dei suoi sacerdoti «coraggiosi». Del suo girovagare tra i villaggi del Kurdistan per «tenere unita la sua comunità sempre più scoraggiata, sempre più senza una prospettiva». Delle sue “trasferte” in Europa per reclamare attenzione e aiuti. «Tanti, troppi non riescono a immaginare un futuro. Il governo iracheno e quello curdo promettono che libereranno le nostre terre dall’Is. Ma i punti oscuri sono più di quelli chiari e la sfiducia spesso ha la meglio».
Una parola rimbomba nel salone sobrio della sede di Acs: Is. Ancora una volta interroghiamo l’Arcivescovo: che direbbe oggi a un miliziano dello stato islamico? «Nulla. Non gli direi nulla. Hanno fatto troppo male e posso perdonare, pregare per loro, non cercare o accettare un confronto». Il sacerdote racconta l’ultima telefonata con un dirigente dell’Is. «Io lo sfidavo: “Perché ci fate questo?”. Lui era netto, quasi spietato: “Potete convertirvi, potete pagare la jizya (la tassa imposta dalla maggioranza islamica ai non musulmani durante l’impero ottomano e reintrodotta dalle milizie islamiche, ndr) o potete andarvene”. Noi ce ne siamo andati e ora Qaraqosh non c’è più. Non c’è più la sua comunità siro cattolica».
Ancora una pausa questa volta più lunga. Poi con la testa tra le mani monsignor Mouche sussurra una frase: «Se non ci sarà più una Qaraqosh cristiana non ci sarà più il cristianesimo in Iraq».
C’è il perdono verso i misfatti dell’Is. ma c’è anche la voglia di ribellarsi. A febbraio Mouche ha visitato un campo di addestramento dell’Unità di protezione della Piana del Ninive e ha benedetto quei giovani che combattono contro lo Stato islamico. È la risposta? «La fede non ci impedisce di difenderci. Attaccare no, difendersi sì. E se torneremo i nostri ragazzi oggi addestrati dall’armata curda proteggeranno i nostri villaggi».
Tornare. Ripete quella parola quasi sillabandola. E intanto l’ultimo pensiero va a papa Francesco. «Tutti i suoi gesti, le sue parole, le sue scelte ci danno forza. Illuminano la nostra fede. E ci aiutano a credere che a Qaraqosh si tornerà a pregare. Senza una Qaraqosh cristiana l’Iraq non ha più valore né per me né per i miei fedeli. E allora potremmo cercare un posto in un angolo di mondo dove vivere liberamente la nostra fede e ritrovare la nostra dignità e i nostri diritti. Un angolo nel mondo, e perché no di Europa».
Arturo Celletti
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