Le voci dei giovani nei colloqui durante i ricoveri. E la denuncia del neuropsichiatra Renato Borgatti: «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza. Una scelta classista e antidemocratica» (foto di Alessandro Tosatto)
Le voci dei giovani nei colloqui durante i ricoveri. E la denuncia del neuropsichiatra Renato Borgatti: «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza. Una scelta classista e antidemocratica»
di Elena Testi, tratto da espresso.repubblica.it
C’è Marco, arrivato dopo aver devastato casa. C’è Luigi, angosciato dal vivere recluso negli 80 metri quadri di casa sua. Cristian, 10 anni, che ha perso il sonno a causa di quei video che i compagni gli mandano durante la dad. C’è Sonia, che ha iniziato prima a togliersi le pellicine dalle unghie, poi a tagliarsi e c’è Alessandra, che ha smesso di mangiare, ma i suoi genitori se ne sono accorti solo quando la zia l’ha fatto notare. C’è Alessia, che ha smesso di dormire, perché chattava con le amiche fino a notte fonda e poi non trovava più un motivo per alzarsi dal letto. Ci siamo tutti noi in questi brevi colloqui. C’è il futuro di un intero Paese, in questa angoscia.
Nei monitor, invece, ci sono le loro camere. Un ragazzo cammina avanti e indietro. Alla fine si siede. Un altro ha accanto la madre. Lui in silenzio sul letto, lei su una poltrona che lo fissa. In altri ci sono letti vuoti con coperte di lana arancione. A osservarle così, da un monitor, non si capisce come siano realmente le stanze del reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Fondazione Mondino di Pavia. Si riesce a mettere in fila solo una serie di immagini sconnesse. Il direttore del reparto, il professor Renato Borgatti, guarda anche lui i monitor: «Con il Covid-19 abbiamo dovuto cambiare le regole: nessuno può entrare all’interno del reparto se non tamponato; anche l’accesso ai familiari è stato ridotto; abbiamo dovuto interrompere l’animazione che con grande generosità portavano avanti diversi gruppi di volontari. Per questo lei può stare solo qui, ma penso che possa capire lo stesso la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Dal territorio ci arrivano in continuazione richieste per ricoverare ragazzi e ragazze che stanno molto male, ritirati in casa nelle loro camere o che danno sfogo alla rabbia con azioni violente. Sono aumentati i disturbi del pensiero gravi, le crisi di ansia e di agitazione. Dai pronto soccorso di tanti ospedali chiamano per tentati suicidi, comportamenti dirompenti, ma non abbiamo più posti. È troppo facile pensare che la soluzione sia aumentare i reparti, dare più posti letto. In realtà il ricovero di un adolescente è sempre una sconfitta della nostra società, che non ha saputo dare risposte tempestive quando il disagio iniziava a manifestarsi. Mi creda: non servono più posti letto, quello che serve invece sono più risorse nel territorio, più psicologi all’interno delle scuole, centri di aggregazione che consentano ai ragazzi di ritrovarsi, serve che lo sport per i ragazzi riparta. E poi è urgente che gli adolescenti siano un problema che la nostra politica si ponga come priorità». Il ragazzo torna a camminare avanti e indietro: «Voglio che la comunità scientifica», continua Borgatti, «si ponga il problema dell’istruzione e di che futuro stiamo dando ai nostri giovani».
Sul muro dell’infermeria ci sono dei disegni, su uno c’è scritto: «Grazie per quello che avete fatto per me». Bambini e adolescenti piegati dalla pandemia. «Mario Draghi», commenta Borgatti, «ha detto che la scuola sarà la prima attività a riaprire quando la situazione dei contagi lo permetterà e che dobbiamo garantire la frequenza scolastica almeno fino alla prima media. Questo vuol dire non aver ancora ben compreso il problema, perché se è giusto che i bambini, anche i più piccoli, tornino a scuola, la frequenza negli istituti degli adolescenti è vitale e non più procrastinabile. Loro, più di ogni altro minorenne, hanno bisogno di uscire dal nucleo familiare, confrontarsi con i coetanei e trovare adulti che siano validi educatori. Lo richiede il loro percorso evolutivo, che viceversa viene tarpato, interrotto». Connessi, di fronte ai pc, persi nei loro incubi: «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza, una scelta classista e antidemocratica. Si salvano e vanno avanti solo quei ragazzi che hanno una solidità e una maturità spiccata, famiglie solide alle spalle che possono seguirli, sostenerli e riconoscere i segni di disagio che a volte resta mascherato. Tutti gli altri invece soccombono. Questa scelta si sta tramutando in una sorta di selezione. E la cosa più assurda è che siamo in pochi a porre il problema. Sembra che gli altri non lo stiano proprio concependo questo dramma, le cui conseguenze saranno evidenti tra qualche anno».
Non basta vedere, raccontare. La Fondazione Mondino ha deciso insieme a L’Espresso di pubblicare alcuni stralci di colloqui, in assoluto anonimato, raccolti da neuropsichiatri e psicoterapeuti nel corso dei ricoveri o nelle visite ambulatoriali.
Luigi, 13 anni
Visitato in ambulatorio per attacchi di panico
Ma lo sai cosa vuol dire rimanere per settimane chiuso in una casa di 80 metri quadri con un padre e una madre che non si sopportano e due sorelline che litigano per ogni stupidata? Prima non li sopportavo, ma alla fine credo di essere arrivato a odiarli... Ma è stato dopo che ho iniziato a stare male: prima chiudermi in un mio mondo con le cuffie alle orecchie, sdraiato sul letto, gli occhi chiusi mi faceva stare bene. Ma poi ho iniziato a provare angoscia. Non so perché, ma mi mancava il respiro, mi sentivo il cuore in gola, sudavo, avevo l’impressione che mi scoppiasse la testa e che potessi impazzire. Una sensazione bruttissima, che non auguro neppure al mio peggior nemico.
Un disegno di Riccardo, prima di tentare il suicidio (Immagine tratta dal documentario "Come stanno i ragazzi?")
Marco, 14 anni
Ricoverato in reparto per comportamenti dirompenti
Se penso che una volta mi inventavo il mal di pancia per non andare a scuola. Avevo paura delle interrogazioni e dei compiti in classe, allora dicevo alla mamma che avevo la nausea e il vomito, il mal di pancia. Lei chiamava la nonna prima di andare a lavorare e io potevo starmene a casa. All’inizio ’sto Covid mi piaceva. Una figata, sempre a casa senza bisogno di inventarsi bugie. Poi però mi mancavano i compagni, le partite nell’intervallo in corridoio con la palla fatta di carta. Gli scherzi in bagno per far incazzare i bidelli. E poi sul pullman tornando a casa era bello, si sparavano un sacco di minchiate e c’era sempre un motivo per ridere e divertirsi. Adesso non vedo l’ora che si torni a scuola. Questa non è vita. Mi è cresciuta una rabbia dentro che spaccherei tutto.
Alessia, 14 anni
Ricoverata in reparto per ritiro sociale e depressione
Alla sera non avevo mai sonno. E nemmeno le mie amiche, visto che si stava sempre fino alle 4-5 a chattare. Non è che avessimo molto da dire, solo che non ci andava di addormentarci. Non sono più capace di addormentarmi. In genere chiudo gli occhi sfinita verso le prime ore del mattino, con ancora il cellulare in mano, e poi dormo fino alle 12/13 quando mia madre viene a chiamarmi per mangiare. Ma cosa mi alzo a fare? Ormai da tempo preferisco rimanere a letto, non faccio nulla. Un po’ dormo e un po’ guardo il soffitto. E cerco di non pensare.
Sonia, 16 anni
Ricoverata in reparto per Self-cutting
All’inizio era noia. Rimani sul letto a guardare il soffitto e non sai cosa fare. Ma quando quel vuoto dentro di te diventa più grande, allora inizi a stare male. Ho scoperto che potevo calmare quel vuoto facendomi del male. Ho cominciato strappandomi le pellicine intorno alle unghie delle mani fino a farle sanguinare. Poi a praticare dei graffi sulle braccia, infine a farmi dei veri tagli con la lametta nell’interno delle cosce. Non se ne è mai accorto nessuno. Sentivo male, vedevo uscire il sangue, ma mi sembrava in quel modo di stare meglio, di dare un senso alla mia vita. Con i tagli riuscivo a riempire quel vuoto che mi stava facendo impazzire.
Alessandra, 14 anni
Ricoverata in reparto per anoressia
Da quando è scoppiato il Covid a casa mia non si parla d’altro. La mamma ascolta tutti i telegiornali e non si perde un dibattito. Il papà è preoccupatissimo di ammalarsi e per i nonni. L’unico giorno che l’ho visto felice è quando gli hanno concesso lo smart working, così non doveva più uscire per lavorare... Per loro io non esisto. Sono invisibile, con tutti i problemi che si sentono addosso. Solo a maggio, dopo il lockdown, quando è arrivata la zia e ha notato che ero dimagrita si sono accorti che non mangiavo più da settimane. Ho perso 13 chilogrammi. Finalmente hanno incominciato a preoccuparsi di me, ma ormai ho scoperto che controllare l’appetito e provare fame mi dà una certa soddisfazione. Anche perché ho perso quei chili sulle gambe e sulle cosce che mi davano un aspetto orribile.
Cristian, 10 anni
Visitato in ambulatorio per disturbi del sonno e angosce notturne
Con la Dad avevo il permesso di starmene in camera per conto mio un sacco di ore. Nessuno veniva a controllare: sapevano che io stavo facendo lezione. Invece mentre ero collegato con il pc, con il cellulare insieme ai miei compagni ci mandavano messaggi, video e altre cose del genere. Era una gara di schifezze, a chi trovava il video o la foto più bestiale. Certi filmati con i corpi deformi o di persone grandissime e schifose con mutilazioni agli arti o nella pancia o nel sedere me li sognavo anche di notte.
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