Nel suo nuovo libro, l’attrice ripercorre in maniera gustosa e coinvolgente alcuni aspetti della sua vita, che negli ultimi anni ha subito uno stravolgimento dopo l’incontro con il Signore.
Beatrice Fazi, nota agli italiani per aver interpretato il ruolo Melina in Un medico in famiglia, ha recentemente pubblicato Un cuore nuovo – Dal male di vivere alla gioia della fede (Piemme, 2015). In questo libro l’attrice ripercorre in maniera gustosa ed estremamente coinvolgente alcuni aspetti salienti della sua vita, che negli ultimi anni ha subito un fantastico stravolgimento determinato dall’incontro con il Signore. L’abbiamo intervistata, ecco cosa ci ha detto.
Beatrice, da domestica in casa Martini ad apostola di Gesù. Un bel cambiamento...
«Sì, è così. Però una cosa è rimasta costante: la necessità di possedere un certo spirito di servizio. Nei primi anni della mia carriera d’attrice per mantenermi facevo la cameriera e adesso, lo dico spesso come battuta, mi fanno sempre interpretare il ruolo della cameriera. C’è sempre questa costante del dover servire: servire nonno Libero in casa Martini e adesso servire la Chiesa, servire Cristo negli altri».
Per il tuo libro d’esordio ha scelto un titolo impegnativo e carico di significati: Un cuore nuovo – Dal male di vivere alla gioia della fede…
«Il mio libro non vuole essere la solita testimonianza di conversione, quasi fosse un’operazione commerciale: “L’attrice convertita che scrive un libro”… Non è così. Se ho maturato la decisione di descrivere il processo che è avvenuto dentro di me nell’arco di quindici anni è perché spero che la mia esperienza possa essere utile ad altri. E, in tal senso, un “cuore nuovo” è proprio un cuore capace di servire con gioia e di mettersi a disposizione del prossimo».
Dove hai trovato la forza per abbandonarti al Signore?
«Per me l’approdo alla fede, più che un atto di coraggio o un gesto dettato dalle mie forze, è stato un salto determinato dalla consapevolezza di essere arrivata al capolinea: avevo raggiunto tutti gli obiettivi che mi ero prefissa, ma non ero felice. La fede è stato quindi l’ultimo tentativo, quando tutte le mie strategie erano fallite. Prima della conversione la mia sete non trovava consolazione, mi dibattevo come una mosca dentro una campana di vetro, mentre in Cristo ho trovato una risposta a tutta la mia vita. E Cristo l’ho incontrato nella Chiesa, fidandomi della promessa di un sacerdote, che mi aveva detto: “Dio ha un progetto su ognuno di noi. Prega che Dio ti faccia capire la tua vocazione, il bersaglio in cui puoi fare centro”. Perché la chiave della felicità è proprio questa: unirsi a Dio. Ed è una cosa possibile per tutti, dal momento che Cristo è disposto a cambiare forma e gusto pur di venirci incontro e di nutrirci, tramite la Sua Parola e con il Suo Corpo. Tutto ha origine e fine nel Signore. Se si capisce questo, si ha svoltato, perché altrimenti ci si creano una serie di idoli che dettano legge sulla propria vita».
Qual è l'aspetto che più ti commuove del cristianesimo?
«La cosa più bella è incontrare cristiani veri e sentire di essere importante per loro, entrando in un’empatia profonda. Il punto fondamentale non è infatti quello di essere aiutati nella materialità, ma di incontrare persone che darebbero la vita per te, come ha fatto Cristo. Dare la vita non significa solo il martirio, ma anche donare il proprio tempo, fermarsi ad ascoltare… E questo senza doppi fini, senza maschere e riconoscendo la propria povertà, nella consapevolezza di essere in cammino assieme».
Beatrice, tu sei “sette volte mamma”. Hai quattro bambini, tra cui Maddalena nata da pochi giorni, ma sei anche mamma di Matteo, che hai abortito in giovane età, e di due bambini che hai invece perso per aborti spontanei
«Esatto, sono “sette volte mamma”! Prima di tutti c’è Matteo, il bimbo che io non ho voluto far nascere. Adesso avrebbe più di vent’anni… M’immagino sempre come sarebbe stato! Nonostante io abbia potuto ricevere il perdono, il dolore non guarisce mai, a maggior ragione ora che so cosa vuol dire essere mamma.Poi c’è Marialucia, che oggi ha tredici anni e che è stata quella che ha subito di più la mia incapacità di essere madre: di non essere paziente, di aver riversato su di lei la mia rabbia, di aver replicato il modello che avevo avuto… Lei porta i nomi delle due nonne, che sono state riunite nella gioia della nascita della prima nipotina. Fabio si chiama così per don Fabio, che è la persona che ha determinato il cambiamento della mia vita, dapprima grazie al sacramento della confessione e poi con le sue catechesi sui Dieci Comandamenti. Quando è arrivato Giovanni, invece, non sapevamo neanche se fosse maschio o femmina, ma ci siamo imbattuti per ben due volte nell’episodio di Zaccaria. Abbiamo quindi scelto questo nome perché ci era sembrata una parola profetica per noi, che ci ha aperto strade che non ci aspettavamo. Ancora oggi non sappiamo perché questo bambino si chiama Giovanni, lo scopriremo. Maddalena, infine, è arrivata dopo che ho perso altri due bambini; è frutto di tante preghiere ed è stata molto desiderata dai fratelli. Abbiamo deciso di chiamarla così perché è per noi un segno di misericordia: Cristo è risorto nella nostra vita e ci ha donato un’esistenza nuova, perché abbiamo fatto esperienza di poter uscire dalla morte e dal peccato».
di Giulia Tanel
Tratto da lanuovabq.it
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