Non sono più i tempi di don Camillo, il combattivo parroco di Brescello uscito dalla penna di Guareschi nel clima ideologicamente arroventato del secondo dopoguerra; ma la figura del prete continua a catturare l'attenzione del più vasto pubblico.
Non sono più i tempi di don Camillo, il combattivo parroco di Brescello uscito dalla penna di Guareschi nel clima ideologicamente arroventato del secondo dopoguerra; ma la figura del prete continua a catturare l’attenzione del più vasto pubblico, tanto che della fortunatissima fiction televisiva di Don Matteo, per citare solo un caso emblematico, si stanno girando gli episodi della nona serie. Peraltro, negli ultimi anni neppure la letteratura è stata a guardare. In testa al corteo campeggia, contagiosa, l’incrollabile allegria di don Ennio, il giovane coadiutore protagonista del romanzo di Ferruccio Parazzoli Per queste strade familiari e feroci (2004); a cascata, poi, diversi altri romanzi, che hanno veicolato un’immagine a tutto campo, aperta e problematica, del mondo e degli ambienti ecclesiastici e claustrali. Ricordo, ad esempio, La nota segreta (2010) di Marta Morazzoni, Il primo respiro (2012) di Pier Francesco Gasparetto, Il senso dell’elefante (2012) di Marco Missiroli, nonché l’impegnativo e coraggioso Dopo il miracolo (2012) di Alessandro Zaccuri.
La ragione di tanto successo va cercata, probabilmente, nel gran bisogno che tutti abbiamo di solidi punti di riferimento: in un mondo che annaspa e frana, dove ci si ritrae puntualmente ammaccati e delusi dagli idoli fugaci e ingannevoli cui ci si è votati, si avverte fortissima l’esigenza di una voce amica, di una parola di conforto e di speranza, di una correzione fraterna, di un consiglio illuminato, di un aiuto a seconda dei casi materiale o spirituale; soprattutto di qualcuno che col proprio esempio restituisca all’esistenza, altrimenti vuota, un senso e uno scopo. Si comprende, allora, l’attrattiva esercitata da presbiteri e religiosi: chi si è messo in gioco per vivere e annunciare la “buona notizia” non può passare inosservato in una società dominata dal narcisismo e dall’indifferenza. Porre al centro della vita il duplice comandamento dell’amore suona, oggi più che mai, talmente controcorrente, da lasciarci stupiti e ammirati. Quanti hanno saputo dire di sì alla chiamata di Dio, compiendo una scelta radicale di dedizione a Lui, ci appaiono persone coraggiose e affidabili, che incarnano con semplicità quell’ideale di vita cui noi aspiriamo invano. Di qui, anche, la tremenda responsabilità del loro ministero. Con la stessa facilità, infatti, con cui siamo pronti a venerarli come modelli di santità, non esitiamo a strapparci le vesti gridando allo scandalo, se appena appena sbandano o non ci sembrano all’altezza delle nostre aspettative. Come se non fossero soggetti alle nostre medesime tentazioni, come se non fossero anche loro impastati di argilla. La letteratura moderna, dai Vicerè (1894) di Federico De Roberto al Prete bello (1954) di Goffredo Parise, non ha mancato di ricamare su queste debolezze. Ma sarebbe inutile cercare qui le rappresentazioni più veritiere dello stato sacerdotale o della vita consacrata. Il filone di gran lunga più interessante è quello, invece, che, da Perfetta letizia (1931) di Pietro Mignosi a Prete Salvatico (1989) di Pasquale Maffeo, nel dar conto delle inquietudini e dell’umana fragilità di figure clericali o monastiche, si è ispirato al versetto in cui san Paolo invita a confidare nel soccorso della grazia, perché la “potenza” di Dio «si manifesta pienamente nella debolezza" della creatura» (2Cor 12,9).
Certo, fra la Lettera di una novizia (1941) di Guido Piovene, il Diario di un parroco di campagna (1942) di Nicola Lisi, L’amico gesuita (1943) di Mario Soldati o Lo zio prete (1951) di Luigi Santucci, da una parte, e L’avventura di un povero cristiano (1968) di Ignazio Silone, Il quinto evangelio (1975) di Mario Pomilio o Servo inutile (1982) di Rodolfo Doni, dall’altra, si avverte quasi una frattura epocale nella rappresentazione di personaggi e milieux ecclesiastici. Ma è che giusto in mezzo a queste date cade l’evento cruciale del Concilio. Il Vaticano II segna, anche per la letteratura, un autentico spartiacque nella trattazione di certi temi, in una col ripensamento complessivo del mistero teologico e della funzione sacramentale della Chiesa. Con alcune conseguenze durature, come l’archiviazione pressoché definitiva del registro comico-grottesco o scandalistico applicato a uomini di Dio e l’abbandono di alcuni risvolti critici che avevano alimentato per decenni la polemica anticlericale, in favore di un magistero delle beatitudini e di un ministero della prossimità e della misericordia. Inoltre, proclamando il “sacerdozio universale” di tutti i battezzati, il Concilio ha rilanciato la funzione del laicato cattolico all’interno delle comunità di fedeli, eclissatasi sotto la spinta di una progressiva gerarchizzazione della struttura. La narrativa registra puntualmente anche questo significativo cambiamento: Il santo peccatore (1995) di Raffaele Crovi è un laico; e pochi meglio di lui hanno imparato a declinare il Discorso della montagna sulle croci e le istanze dell’uomo di oggi.
Giuseppe Langella
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