Non è facile parlare con lui, né con gli altri. Perché le immagini del passato e del presente si fondono e, adesso che sono tornati sull'isola da sopravvissuti, irrompono ricordi che scardinano la memoria.
Non è facile parlare con lui, Teamè, né con gli altri. Perché le immagini del passato e del presente si fondono e, adesso che sono tornati sull’isola da sopravvissuti, con ancora più dura forza irrompono ricordi che scardinano la memoria.
Sono attimi che fanno riemergere sofferenze, dolori, tortura e morte. Perché sono rari i momenti di gioia o di ristoro nella vita di chi sceglie di lasciare il proprio Paese in quel modo, con uno zainetto in spalle, dovendo misurarsi con insidie e pericoli, minacce e violenze, malattie e fame, come è accaduto al giovane Teamè, a Luam, a Fanus, a Rezeni e molti altri. Teamè ci ha provato «varie volte, prima di riuscire a farcela». Ma senza sapere quale era il vero conto da pagare.
Prima di vederlo realizzato, quel sogno, ha dovuto patire anche la prigionia nelle mani delle bande dei predoni che infestano il Sinai egiziano, per poi rischiare di morire annegato.
Il deserto della Bibbia. Di quel Libro della Fede, la culla della preghiera, che Teamè, ora, con gli occhi rossi, dice di avere recitato in continuazione, «invocando Maria». Aveva solo questo Teamè, la preghiera da dedicare alla Madonna per cercare protezione.
Sono gentili quando rispondono «adesso no, forse dopo». Spiegano di essere stanchi per il viaggio. In realtà è qualcosa d’altro che agita i corpi dei ragazzi eritrei tornati a Lampedusa. Il mostro è ancora li e li tiene prigionieri di un passato che non puo più tornare ma che resterà sempre presente, in ogni istante della loro vita. Perché non sarà mai possibile cancellare il ricordo di quella notte e non solo. Di quel 3 ottobre del 2013.
Quell’alba che cominciava a formarsi nel contorno di una costa che lentamente si modellava all’orizzonte, dopo avere navigato per giorni su una carretta del mare che caracollava piena zeppa di vite contente di avercela quasi fatta. Liberi, finalmente. La salvezza a portata di mano. E poi, invece, la tragedia. Il fuoco che brucia, il naufragio con centinaia di morti annegati: 366. Amici, genitori, fratelli e sorelle. Piombati a fondo come sassi e poi ritrovati cadaveri in un hangar dell’aeroporto per il riconoscimento di rito. E adesso c’è anche quel ricordo che emerge in alcuni di loro.
Quelle due donne ripescate morte, ognuna con un crocefisso stretto fra i denti. Sapevano che morivano e forse temevano di non essere ritrovate per una degna sepoltura. E, forse, per questo motivo avevano scelto di stringere le croci tra i denti. Per non morire sole.
Anche Fanus, 19 anni, è tornata, lei una delle sole sette donne sopravvissute al naufragio. Lei che ha avuto il coraggio di denunciare il somalo che aveva organizzato il viaggio e intascato i soldi e che si sarebbe anche macchiato di violenze inumane alle donne.
E seppure, adesso, in questo momento che è anche un regalo che per questi ragazzi deve essere di gioia per il prossimo incontro che avranno con persone importanti che non sono solo «vecchi» amici conosciuti un anno fa, ma anche i loro stessi salvatori, ebbene, nonostante questo privilegio di «ospiti speciali» benvenuti, anzi, bentornati a Lampedusa, non è stato facile non solo strappare qualche parola del ricordo, ma anche scrutare nei loro occhi giovani imperlati di lacrime. Non si riesce a stare immuni alle loro storie senza provare un fitta al cuore e con i sentimenti propri che vibrano nervosi.
Teamè é giovane, i muscoli robusti e 25 anni. È nel pieno della vita e ha un sorriso che gli è spontaneo quando abbraccia le persone. Ha il volto rotondo, incorniciato da una soffice barbetta nera. Gli occhi scuri quasi sembrano fiori che sbocciano sulla sua pelle rosso scuro, il colore del popolo dell’Eritrea. È uno dei sopravvissuti di quel terribile naufragio di un anno fa. È tornato sull’isola con altri sopravvissuti e parenti delle vittime per perpetrare la memoria di quanti hanno perso la vita mentre cercavano una nuova vita. E invece.
Vestito come un giovane d’oggi, con al collo il rosario donatogli da papa Francesco, che Teamè non si toglie più, ora vive in Norvegia, a Narwick, dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. Sta imparando la lingua di quel Paese lontano e dagli inverni gelidi, e vuole diventare un bravo idraulico. Ma l’Italia, Lampedusa, sono nel suo cuore che batte: «Non posso dimenticare l’accoglienza che mi avete offerto», dice quasi sottovoce. Sapeva molto bene che il suo viaggio sarebbe stato molto difficile e sapeva anche delle insidie e dei ricatti.
Ma non immaginava quando dolore doveva pagare, anche quello di vedere annegare il suo amico Jonas. Eppure, dice, rifarebbe tutto quello che ha passato, «per forza, pur di fuggire da quella dittatura».
«Sono rinato due volte. In due occasioni la morte mi è venuta incontro. Ma ringrazio Dio per avermi protetto e aiutato – racconta –. Cosa mi manca di più? La mia terra, la mia famiglia, i miei amici, e anche le persone che ho conosciuto lungo la strada dell’esilio e della sofferenza. Ma so che se mi affido a Dio, sono sicuro che lui mi aiuterà a ritrovare tutte queste persone».
Claudio Monici
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