Leggendo la poesia di Kavafis ci si chiede: qual è il senso del nostro cammino? Dov'è la nostra Itaca? E poi perché proprio Itaca, isola del ritorno?
del 11 maggio 2017
Leggendo la poesia di Kavafis ci si chiede: qual è il senso del nostro cammino? Dov’è la nostra Itaca? E poi perché proprio Itaca, isola del ritorno?
“Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fa’ voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze”.
Questi versi di Kavafis suscitano una riflessione sul viaggio, sulla partenza e, soprattutto, sul ritorno. Il viaggio di cui parla il poeta di Alessandria d’Egitto è un itinerario lungo ed impervio in cui si incontrano Lestrigoni e Ciclopi e Posidone, e porti mai conosciuti prima. Itaca, però, è il solo e unico motivo per il quale ci si mette in viaggio: “senza di lei non ti mettevi in via”.
Così mi sono chiesto: qual è il senso del nostro cammino? Dov’è la nostra Itaca? E poi perché proprio Itaca, isola del ritorno?
Oggi, in effetti, sembra che il viaggio abbia smarrito quel senso di ricerca che aveva un tempo, anzi, cerchiamo di evitare la componente “casualità” programmando tutto nei minimi dettagli. Si vorrebbe schivare l’imprevisto per giungere dritti a destinazione e si tenta, se non altro, di azzerare tutti gli inconvenienti del caso. La molla di un viaggio può essere lo svago, il relax o il mero lavoro: una serie di pacchetti confezionati ad hoc per non deludere le aspettative.
Pochi di noi sono abituati a considerare il viaggio come una condizione spirituale, un desiderio innato, una forza misteriosa, e ad accettare la mole di sacrifici che ci separano dalla meta. Eppure, contro ogni tendenza, esiste una cerchia, sempre meno ristretta, pronta a preparare un viaggio diverso dagli altri, non di riposo ma di pura fatica. Perché? Perché scelgono di farlo? Perché proprio quel luogo? E cosa li spinge a mettersi in moto?
Un viaggio è nostalgia, è il sapore delle cose che avremmo voluto fare da piccoli o le traversate che nostro padre e i nostri nonni ci raccontavano a tavola.
Non parlo, ovviamente, di pacchetti turistici né di weekend last-minute ma di un viaggio, un viaggio vero e proprio, in cui i luoghi si vivono, la meta è lontana, costellata di soste, di incontri, di “voluttuosi aromi”. Nessun tipo di imbarco, nessun escamotage per evitare la lunga trasferta. Qui si preferisce una bici all’aereo, una moto all’auto, un paio di scarpe da trekking ad un treno.
Conosco amici che hanno percorso a piedi i circa 800 km del cammino di Santiago; un ciclista partito dalla Germania che ha raggiunto Danimarca e Norvegia sulle due ruote; un ragazzo siciliano che ha percorso a piedi il perimetro dell’isola in compagnia del suo cane; un altro cicloturista tedesco che da Palermo ha raggiunto Milano: un’estate intera in bici per attraversare l’Italia. E quanti altri ancora…
Penseremmo che dietro imprese del genere ci sia una grande, sconfinata, incurabile follia. Ma se solo provassimo a cercare il motivo del loro cammino forse capiremmo che dietro quella follia della partenza c’è un insanabile desiderio del ritorno.
Tanti di loro sono alla ricerca di un qualcosa, spinti da qualcosa. E allora chiedere a questi intrepidi cosa hanno in testa e perché viaggiano sarebbe come chiedere ad un uomo perché respiri: è una questione di vitale importanza.
Un viaggio del genere deve essere inteso alla stregua di un pellegrinaggio e se c’è ancora qualcuno che, pur di raggiungere una meta, è pronto ad affrontare i pericoli o gli imprevisti o magari la fatica mescolata a polvere e sudore, allora quella è devozione. Un viaggio intrapreso come atto di devozione diventa un pellegrinaggio: la nostra forma primaria di espressione, il nostro modo per tornare indietro.
È un viaggio in cui non si sorvolano i luoghi ma si fissano lentamente, lì, dove anche il tempo si ferma. Un itinerario per consentire all’anima di raggiungerci, per placare un fantasma, rimarginare una ferita, fare i conti con la nostra storia. È disciplina mentale, meditazione, ricerca, conquista, umiliazione, resa.
Da qualche parte ho letto che il viaggiatore percorre non tanto i luoghi quanto il tempo, eppure è l’idea stessa del luogo a ispirare nostalgia: è il luogo in cui eravamo già stati, o il luogo al quale da tempo desideriamo ri-andare. Un posto che diventa ricordo e realtà. Un po’ come Itaca: la nostra casa. Probabilmente il pellegrinaggio farà di noi una persona migliore ma una destinazione prevarrà su tutte. Che sia la famiglia, gli amici, o tutte le persone lontane, la più grande sorpresa di un viaggio è che si arriva lì dove mai ci si sarebbe aspettati: a casa.
E allora non si conquista la vetta, non si vince la partita, “e se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso”. Senza neppure saperlo si raggiunge quel luogo che stavamo cercando e che mai avremmo immaginato così vicino.
Il vento soffierà dall’Est e i pesci non abboccheranno, le notti saranno più dure del previsto e le giornate più ruvide dei nostri stessi sogni. Persino un imprevisto ci renderà più forti. Allora il nostro viaggio, contro ogni aspettativa, ci ha riportati indietro. Centinaia, migliaia di chilometri di fatica per ritornare a casa.
Itaca t’ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
[…]
E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.
Domenico Cassese
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